11 Novembre 1998 – Chiesa di S. Sofia
Pacecco De Rosa
S. Giuliana in carcere
Come apprendiamo dal Basile, nel 1622 i giuglianesi “ considerando la perfetta somiglianza del nome, che passa tra Giugliano e Giuliano, pensarono eleggere questo per Principal Protettore”. Nel 1631 per ringraziare il nuovo patrono di avere risparmiato Giugliano dalla furia del Vesuvio, essi gli eressero una ampia cappella lungo la navata sinistra della chiesa di Santa Sofia. Sempre dal Basile si apprende che nel 1639 tale cappella venne ceduta al Dottor Antonio De Blasio il quale, in cambio del privilegio di essere sepolto ai piedi del Santo, si impegnava ad abbellirla. E’ a questa fase di abbellimento che si devono sia gli stucchi che ancora la ornano, che le cinque tele che si trovavano nel piccolo abside dietro l’altare. I dipinti sono stati attribuiti nel 1999 dal Pacelli a Pacecco De Rosa, uno dei più importanti artisti del Seicento napoletano, attivo dal 1607 al 1656. Per rappresentare Santa Giuliana l’artista si attenne fedelmente alla tradizione agiografica, che voleva la giovane martire tentata in carcere dal demonio. Il dipinto appartiene alla stagione in cui molto forti sono in Pacecco i ricordi sia di Filippo Vitale, suo patrigno e primo maestro, che di Massimo Stanzione.
11 Novembre 1998 – Chiesa di S. Sofia
Pacecco De Rosa
Il martirio di S. Giuliano
Valgono per questo dipinto le stesse considerazioni stilistiche fatte per la precedente Santa Giuliana in carcere. Unica differenza è un uso più sfumato del contrasto luce-ombra, ciò in ragione dell’esigenza di ambientare la scena in un luogo aperto e di rendere visibili anche le tre figure di carnefici. A conferma dell’attribuzione dei dipinti al De Rosa, c’è da sottolineare che uno dei carnefici è la copia fedele di una figura in primo piano presente nella “Strage degli innocenti”, opera firmata e datata, conservata al Philadelphia Museum of Art. San Giuliano invece, riprende i caratteri somatici dell’Apostolo Giovanni nella “Assunzione della Vergine” sempre del De Rosa, ed esposta al North Carolina Museum of Art.
11 Novembre 1998 – Chiesa di S. Sofia
Pacecco De Rosa
Il martirio di S. Sofia
Per questo episodio Pacecco De Rosa abbandonò le atmosfere stanzionesche dei primi due dipinti, ambientando la scena in pieno giorno e dunque utilizzando delle soluzioni pittoriche diverse, ispirate ad un uso più disteso e corposo della luce. Anche questo quadro, al pari degli altri cinque della serie, aveva alla base uno stemma araldico. Non è stato possibile risalire a quale famiglia di Giugliano tale simbolo appartenesse. Si potrebbe ipotizzare a quella dei De Blasio, tuttavia c’è anche da sottolineare che mentre per Santa Giuliana e San Giuliano si trattava di un braccio recante una spada, nelle restanti tre opere c’era una ermellino con intorno la scritta “Melior mori quam foedari” riferibile forse più al messaggio che giungeva dall’episodio del martirio del Santo che ad un preciso blasone familiare.
11 Novembre 1998 – Chiesa di S. Sofia
Pacecco De Rosa
S. Deodato Abate
Sempre dalle “Memorie Istoriche della Terra di Giugliano” del Basile si apprende che, oltre alle reliquie di San Giuliano, il Vescovo di Sora donò alla città anche dei frammenti dei corpi di San Deodato Abate e San Romito Diacono che “ricevute con universale allegrezza, (…) fuono li Santi Deodato e Romito dichiarati Avvocati (protettori n.d.r.)”. Le tele raffiguranti questi Santi presentavano caratteristiche diverse rispetto alle prime tre del ciclo, lasciando ipotizzare una più tarda realizzazione da parte del De Rosa. Il San Deodato poteva senza dubbio essere considerato uno dei capolavori del pittore napoletano. Esso era riferibile a quella stagione artistica successiva agli anni ’40 in cui Pacecco, abbandonato il crudo naturalismo di stampo stanzionesco, purificò la sua maniera, rendendo le ombre sempre più trasparenti ed il colore più levigato. Splendido in quest’opera era il volto del Santo, un vero e proprio gioiello di ricerca espressiva e cromatica.
11 Novembre 1998 – Chiesa di S. Sofia
Pacecco De Rosa
S. Romito Diacono
Alla medesima stagione del precedente dipinto andava ascritta anche la presente tela. L’opera, oltre a confermare la nuova ricerca cromatica avviata da Pacecco nel quarto decennio del Seicento, denotava anche il debito che l’artista aveva contratto con la pittrice Artemisia Gentileschi, presente a Napoli già prima del 1630. Dalla Gentileschi Pacecco prese la ricerca di toni cromatici lucenti, di atteggiamenti di grazia misurata nelle figure, e soprattutto un’attenzione minuziosa nella resa dei tessuti. Benché qui mortificati da una non perfetta riproduzione fotografica, meravigliosi erano i colori e le forme dei paramenti sacri indossati dal Santo. Bellissimi anche i giochi di luce nella costruzione delle mani e la precisione nella definizione dello sguardo.