Il “monaciello” di via San Rocco.
L’articolo sugli episodi di possessioni demoniache a Giugliano nel 1664 ha suscitato notevole curiosità. Molti hanno chiesto spiegazioni, altri mi hanno raccontato episodi riconducibili a campi non di mia competenza, qualcuno mi ha narrato storie simpatiche fatte di un magico molto diffuso sino a qualche decennio or sono.
Prima di narrare quella che mi ha fatto sorridere di più devo dare qualche nota illustrativa ai lettori più giovani.
Quando le case costituivano i luoghi fisici dove si svolgeva la vita di varie generazione delle stessa famiglia, cosa rilevabile dai toponimi dei vicoli del centro storico, la morte e l’aldilà era concetti di uso corrente. Per un bambino che viveva nel “luogo”, sino agli anni 50 del secolo scorso, vedere un cadavere disteso sul letto, prima del trasporto in chiesa e poi al cimitero, era prassi normale, come lo era ascoltare narrazioni magiche recitate, quasi come litanie, dalle nonne o delle anziane del cortile, il “luogo”, appunto.
Il pezzo forte di questo rapporto con il mondo magico era il “monaciello”.
Narra la leggenda che alla fine del 1400 una ragazza napoletana, Caterinella Frezza, figlia di un ricco mercante, si era innamorata di un garzone della bottega paterna, tal Stefano Mariconda. Come nel migliore copione della tragedia dell’amore contrastato i due amanti erano costretti ad incontrarsi di notte quando Stefano, passando sui tetti delle case, raggiungeva la sua Catarinella nel “supenno” di casa Frezza.
Una mano misteriosa, una notte, provocò la caduta di Stefano e la sua morte.
L’amore tra i due ragazzi, però, aveva dato il suo frutto: Catarinella andò a rinchiudersi in un convento del quartiere Porto ove partorì un bambino deforme dalla enorme testa e dal piccolo corpo.
La speranza di una miracolosa guarigione fece si che la madre vestisse il piccolo con un saio monacale, dal quale derivò il nome che il popolino affibbiò al povero sventurato: “’o monaciello” .
Il tempo passava ma la miracolosa guarigione non avveniva ed anzi l’insolenza del popolino verso quel misero bambino cresceva sempre di più al punto da farlo assurgere a portatore di mala o buona sorte. Se indossava un cappuccio di colore rosso erano buoni auspici se il colore del copricapo era nero la sventura era nell’aria. Le cose precipitarono con la morte della madre: gli furono attribuiti solo poteri malefici sino a quelli di provocare la introduzione di nuove tasse e cosi si giunse alle aggressioni fisiche, “ ‘o monaciello” scomparve. Il popolo disse che l’aveva rapito il demonio.
Ma continuò a vederlo in molti posti della città più povera ed alla sua brama di vendetta furono associate le sventure che quotidianamente colpivano la gente. Il fatto che fosse diventato uno spirito fu comunemente accettato ed ad esso furono associate le possibilità di vincite al lotto derivanti dai suoi suggerimenti.
Insomma un piccolo demone smanioso di vendicarsi dei torti subiti ma con un indole che lo portava, alla fine, a soccorrere chi soffriva, come lui aveva sofferto.
Il “monaciello” di cui andiamo a narrare le gesta comparve in vico san Rocco agli inizi degli anni 50 del secolo scorso. Un cortile con varie famiglie e tanti bambini tra i quali il signor Pasquale che ha sentito il bisogno di riferirmi i fatti che sconvolsero, per una decina di giorni, la quiete di quel “luogo”, in prossimità della cappella di san Rocco.
Era una sera d’estate, un gruppo di ragazzi, tra i quali il nostro narratore e suo fratello Carlo, stanno facendo ritorno a casa. Hanno giocato nello spiazzo di Camposcino, accanto alla chiesa di san Marco, ma, nonostante il caldo estivo devono andare a letto.
Imboccano la strada di casa rincorrendosi e facendo a gara a chi arriva prima al portone.
Carlo è il più veloce, allunga la falcata e in pochi attimi giunge sotto l’ arco di accesso. Si ferma per guardare gli altri arrancare nel cercare di raggiungerlo. Ogni sera, in quel momento, un suo sberleffo verso gli altri ragazzi sottolineava la sua prodezza. Quella sera stette zitto, stava immobile a guardare verso l’interno del cortile. Gli altri lo raggiunsero, gli chiesero cosa stesse facendo con la gli occhi puntati verso il “suppenno” del fabbricato. Allo stupore, insito nella domanda, fece riscontro quello dipinto sul viso di Carlo: chiese a tutti gli altri chi fosse l’omino che , affacciato all’abbaino, faceva segni di saluto. Lo invitarono a non dire stupidaggini, nessuno vedeva questo omino indicato da Carlo. La scena non era sfuggita a sua nonna. Si levò dalla sedia sulla quale, seduta, prendeva fresco ed aspettava i nipoti e si avviò verso il gruppo di ragazzi che continuava a porsi vicendevolmente la domanda che assillava Carlo.
Fece segno di seguirla senza fare schiamazzi ed andare a dormire, invitò Carlo a non ripeter sciocchezze su omini e similari. Carlo, più tardi, disteso nel suo lettino, la sentì chiaramente dire alla figlia, la madre di Carlo e Pasquale, : “ chillo è turnato, mò a procidana ha perso una altra volta la pace”.
Il risveglio di Carlo fu dolce e stupefacente: una decina di caramelle erano poggiate sul suo cuscino. All’epoca dieci caramelle erano una insperata manna per qualsiasi bambino ma, in questo caso, erano un fatto pauroso perché non si sapeva chi li avesse portate. Le insistenze dei fratelli costrinsero la madre a chiarire le cose.
L’anno prima il “monaciello” era comparso mostrando attenzioni verso questa donna, molto bella, detta la procidana. La sfiorava di continuo e sin quando la donna non si era decisa ad allontanarsi da casa ogni volta che si spogliava la caduta di oggetti era il chiaro segno della sua presenza lussuriosa. L’allontanamento della procidana aveva provocato la fine di quella presenza che si era manifestata, sempre dal sottotetto, anche ad un uomo del cortile di nome Gaetano.
Adesso il ritorno della donna aveva provocato il ritorno del “monaciello”.
Quella sera Carlo corse in casa terrorizzato: il piccolo uomo gli faceva segno di seguirlo mostrando le caramelle che stringeva nella mano. Pasquale e gli altri lo seguirono urlanti coinvolti in una sorta di isteria collettiva. Gaetano, che pure lo vedeva, tirò verso la creatura un bastone e delle pietre…immediatamente restituite al mittente, con veloce ritirata dell’uomo all’interno della propria abitazione.
Il panico la faceva da padrona soprattutto per quanti non vedevano il “monaciello” e non potevano sapere cosa stesse per succedere. Era strano, gli unici non terrorizzati erano proprio i due che avevano il dono di poterlo vedere anzi era come se sorridessero agli sberleffi, che riferivano, che la creatura faceva verso di loro.
L’apoteosi si ebbe il mattino seguente: la procidana correva nel cortile inseguita da una scopa che pareva librarsi nell’aria senza che mano alcuna la reggesse. La sua caduta sulla testa e sulla schiena della donna era seguita dalle urla di questa. Gaetano usci di corsa dal suo basso, urlando improperi e malevolezze, si lanciò sulla scopa bloccando di fatto l’entità invisibile. Pareva che la cosa fosse finita ma la vendetta del “monaciello” non tardò: due pietre si sollevarono nell’aria, entrarono in casa di Gaetano, attraversarono il vetro della cristalliera, senza romperlo, e fracassarono molti bicchieri del servizio buono colà esposto.
Al fracasso dei vetri rotti seguì la quiete. Nè Gaetano, nè Carlo lo vedevano, pareva essere sazio della vendetta e, forse, andato via.
Macchè !
Gaetano se lo ritrovò alle spalle sulla carretta che stava conducendo verso la campagna in direzione di Parete. Sberleffi, ceste buttate sulla strada, promesse di vendetta per l’aiuto fornito alla procidana, poi il silenzio: Gaetano si voltò, lo vide in piedi sul ponte della ferrovia alifana. Stranamente Gaetano si fermò, scese dalla carretta e, come si può fare con un bambino, si preoccupò della sua assenza.
Non poteva continuare, urlò il “monaciello”, si stavano avvicinando al cimitero e, per lui, quello era uno spazio interdetto.
Al ritorno Gaetano trovò il prete che, dopo avere benedetto tutte le case del “luogo”, recitava le preghiere assieme alle donne ed ai bambini.
Da quel giorno il “monaciello” non si manifestò più. In fondo qualcuno ne sentì la mancanza. Certamente Carlo che aveva perso quella sorta di amico segreto… che andava nell’aldilà e tornava con le caramelle.
Antonio Pio Iannone
Pro loco Giugliano
18 marzo 2015