Le storie strappate …..
Un’opera d’arte cessa di esistere quando le persone che intorno ad essa vivono, il luogo per cui essa venne pensata, il contesto di cui ero frutto cominciano a considerarla non più come una presente e viva testimonianza della propria Storia, ma semplicemente come un oscuro fardello di un tempo lontano.
Questo era accaduto ai tre bassorilievi del campanile di Santa Sofia. Dimenticati da una città che con molta leggerezza vive il proprio presente e con troppa indifferenza trascura il proprio passato, essi erano diventati oramai invisibili. Fu perciò f acile per chi aveva occhi attenti per guardare, in quella fontana notte di dieci anni fa, portarli via verso una nuova, oscura destinazione.
In silenzio qualcuno strappò a Giugliano un frammento importante della propria identità, di ciò che era stata o si immaginava fosse stata. Al risveglio, anche chi quelle tre lapidi non le aveva mai guardate e forse mai lo avrebbe fatto, si trovò sicuramente più povero.
….. La storia ritrovata
Collocare nelle orbite vuote dei tre bassorilievi le realizzazioni del maestro Mangieri, non vuol dire suturare quella terribili ferita. Certamente però, vuol dire medicarla.
Quelle che da oggi in poi si vedranno alla base del campanile di Santa Sofia non sono le Storie della città, ma vogliono rappresentarne la Storia. Nessuna delle tre opere, a differenza degli originali, racconta un momento, una stagione diversa del passato di Giugliano, tutte insieme però voglio fare in modo che il ricordo di quella perduta identità non si cancelli.
Nell’oblio che ha avvolto per anni i tre fori lasciati alla base della torre campanaria, tanti giovani, tanti ragazzi, che saranno il fu turo di Giugliano, hanno perso l’occasione di potersi guardare indietro e riscoprire chi erano. Ecco, la Storia ritrovata è proprio questa: aiutare a conoscere il passato per poter meglio costruire il futuro.
Pro-Loco Città di Giugliano
Giugliano in Campania, 30 maggio 2004
Tutto cominciò nell’agosto del 2001, durante una vacanza ad Amalfi con la mia famiglia.
Una domenica sera il Signor Manzo, un nostro amico del posto, ci propose di visitare la città di notte. Le vie brulicavano di turisti di ogni Parte del mondo che, a frotte, si riversavano per il centro storico illuminato dalle luci delle vetrine dei negozi ancora aperti. Per sfuggire a questo fiume di persone Manzo, ad un tratto, ci propose Cli seguirlo in una stradina stretta e poco illuminata che si apriva lungo la salita alle vecchie fabbriche di carta. Ci avventurammo così nel ventre di Amalfi, e man mano che camminavamo i rumori e le voci della città si facevano sempre più distanti e attutiti. Giunti ad un certo punto, la nostra guida ci invitò a seguirlo in un portone che, appena appannato, era illuminato ai due lati da altrettante torce accese. Fu così che, come per magia, ci ritrovammo in un giardino pensile che stava per rivelarci una enorme sorpresa. La luce della luna, in quella dolcissima sera d’estate, rischiarava una piccola folla di statue di marmo disseminate quasi a caso tra piante e vasi fioriti. Erano donne, guerrieri, teste di animali quelle che al pallido chiarore che le illuminava si presentavano ai nostri occhi. Cominciammo così a guardarle da vicino, sfiorandole con le dita e respirando l’incanto di una visione che ci facevo sentire come prigionieri di un mondo fantastico. Erano statue bellissime, di una bellezza però antica, ancestrale, tant’è che credemmo si trattasse di antichi reperti amalfitani.
Mentre giravamo rapiti attorno a quelle strane figure,alcune delle quali parevano essere uscite da un tempio romanico, altre dalle viscere di una cattedrale gotica, da dietro un enorme figura di sovrano seduto in trono uscì un ragazzino. Quasi come se ci avesse letto nel pensiero si avvicinò, porgendoci un piccolo libretto bianco. Sulla copertina c’era la figura di un uomo vestito di rosso, con in mano uno scalpello. Ci venne allora da chiedergli chi fosse quell’uomo e che rapporto avesse con quelle antiche sculture. Il ragazzino ci guardò quasi sorpreso eppoi, mentre si arrampicava sulle ginocchia di quella stessa statua dire dalle cui spalle era apparso! ci rivelò che le sculture erano opera di suo nonno e che quello era i Museo “Mangieri”, dal nome dello scultore Francesco Mangieri, da tutti però meglio conosciuto come “Mao”.
Lasciato quel giardino incantato, mentre tornavamo in albergo non facevo che pensare a quelle statue, alla loro bellezza antica e moderna insieme, e fu così che, mentre attraversavo la piazzo antistante il Duomo, osservando i suoi marmi policromi dentro di me brillò un’idea folle, stramba, a tal punto assurda da non tarmi dormire la notte.
Il giorno dopo, al ritorno dal mare, passando per la piazzetta degli Arsenali la mia attenzione venne rapita da uno strano negozio, la “Bottega di Masaniello”. Non fu certo ciò che vi era esposto che mi catturò, trattandosi di souvenir estremamente comuni, ma il rumore che proveniva dal suo interno. Con mia moglie decisi allora di entrare. E fu così che lo vidi. Era li, coperto di polvere dallo testo ai piedi, armato di scalpello e mazzuolo e intento a dare forma ad una sua nuova creatura. Era proprio lui, l’autore delle sculture che avevo visto la sera prima, quel Mangieri che ero fotografato sulla copertina del catalogo che il ragazzino mi aveva dato. Mi fermai ad osservarlo, scambiai con lui qualche parola ma poi andai via.
Avevamo fatto solo pochi passi quando quell’idea che avevo avuto la sera prima mi tornò alla mente paralizzandomi. Fermai mia moglie e le chiesi allora di seguirmi. Dovevo tornare indietro e raccontare a quello stregone della pietra una storia. Dovevo raccontargli di tre lapidi che erano incastonate alla base del campanile di una chiesa della mia città, dovevo dirgli di come esse rappresentassero la storia di quella mia bistrattata terra e di come una notte di maggio, tanto tempo fa, fossero sparite, inghiottite nel buio e ora esposte in chissà quale casa o giardino privato. Entrai di nuovo nella bottega e dopo aver raccontato a Mangieri quella storia, in preda ad una sorta di eccitazione infantile,di getto, senza pensarci due volte, gli domandai se volesse riprodurle.
Mao prima mi guardò, fissandomi dritto in viso con quei suoi occhi più duri del marmo che stava scolpendo, poi, con mia grande sorpresa, accettò.
Quando le vacanze finirono e a settembre la Pro Loco ricominciò la sua attività, immediatamente ne parlai a tutti. Cominciammo così la nostra ennesima battaglia, salendo e scendendo le scale del palazzo comunale, bussando porte e facendo code fuori alle stanze de potere, cercando degli interlocutori che potessero ascoltare questa nostra idea ed esserci vicini in una impresa dalle tante incognite e dalle molte spese che, sinceramente,da soli non potevamo affrontare. Furono pochi quelli che ci ascoltarono; i più storcevano il viso, facevano domande e poi ci congedavano col “vediamo” che è di prammatica nella nostra realtà.
Non ricordo quante volte con Mimmo Savino e Tobia lodice abbiamo salito le scale del Comune in attesa di una risposta, di un cenno di aperto consenso a quella nostra iniziativa. Poi, quando anche quei pochi interlocutori sensibili scomparvero, indecisi se arrenderci o continuare, decidemmo di fare da soli. Da soli abbiamo comprato il marmo necessario, doasoli abbiamo cercato tutto la documentazione di cui Mongieri avevo bisogno, da soli abbiamo trasportato in quel di Amalfi tre pesantissime lastre di marmo bianco.
Mao ho lavorato pazientemente per quasi due anni alle tre lapidi. Ad intervalli irregolari , senza alcun preavviso, ci telefonava per dirci che ne aveva terminata una, e così noi, trepidanti come bambini, armati solo del nostro entusiasmo, andavamo a riprenderci quei nuovi-antichi tasselli della nostro storia, per guardarceli poi in segreto, decisi come eravamo a presentarli alla città solo quando tutti e tre i bassorilievi fossero pronti. Il venti febbraio 2004 quel giorno tanto atteso è arrivato. Il resto è quello che si vede e ciò che si è fatto. E così, da un incontro casuale si è realizzato un antico sogno. Forse a qualcuno questo sogno non piacerà, certamente ci sarò chi dirà: “se…ma…eppure”. Lo sappiamo, lo abbiamo messo nel conto. Non crediamo di non avere sbagliato nulla, una solo cosa però ci rende sereni e cioè l’aver dimostrato che alle parole (e sulle lapidi ne sono state dette tante) ed alle promesse (ed anche con queste non si è scherzato) se si vuole veramente possono seguire i fatti. Per questo non vogliamo meriti, né personali né collettivi.
Il compito di una Pro Loco è come dice il suo stesso nome, quello di lavorare per il luogo, per il territorio su cui insiste. Abbiamo fatto semplicemente questo, e ciò, in tutto onestà, ci basta.
Antonio Cacciapuoti
Tesoriere Pro Loco Città di Giugliano
L’artista
Francesco Mangieri nasce ad Amalfi nel 1935. La città che lo vede bambino è ben diversa dall’esclusiva località turistica di oggi. Amalfi, a quel tempo, è poco più che un piccolo borgo marinaro dove solo le ricche decorazioni di alcuni antichi palazzi e l’imponenza del Duomo ancora parlano del suo glorioso passato di quand, insieme a Pisa, Genova e Venezia, la città dominava il mondo grazie alla sua flotta marinara. Ed è proprio osservando quei palazzi proprio studiando le forme sinuose delle decorazioni marmoree del Duomo, che nel giovane Mangieri nasce il desiderio di dedicarsi alla scultura. Il suo è un apprendistato tutto personale. A guidarlo in questo percorso infatti, non ci sono né scuole né accademie, ma solo i vecchi maestri d’ascia, quelli che con la pelle conciata dal sole riparano le barche dei pescatori di tutta la costiera nelle poche botteghe che ancora si aprono vicino all’Arsenale, l’immenso vano scavato nella roccia da cui uscivano le temibili galere della Repubblica amalfitana. E’ il legno il primo materiale che Mangieri usa, quello stesso legno che ogni giorno vede piegare da quegli antichi artigiani o far rinascere dalle amorose cure dei vecchi calafati.
I modelli a cui si ispira sono invece i leoni stilobati della cripta di Sant’Andrea e del pulpito del Duomo. Non ha pretese il giovane Francesco, scolpisce per amore, per passione, non crede assolutamente che quelle creature che si diverte a tirare fuori dal legno possano valere qualcosa.
Poi le cose cambiano. Con gli anni cinquanta Amalfi diventò una rinomata località di villeggiatura. Le sue strade si popolano di turisti famosi e non, e tutto quella gente porta con sé la voglia di spendere, di comprare. Mangieri, amalfitano puro, quindi mercante doc, questo lo capisce. Apre uno piccola bottega lungo il corso e comincia a vendere ciò che questi nuovi invasori vogliono: souvenir, cianfrusaglie, insomma: un po’ di tutto. Il tempo da dedicare alla scultura diventa sempre di meno, fino a quando quella giovanile passione non si trasforma in un passatempo da praticare nei pochi mesi invernali in cui i turisti non arrivano. Nel 1990 però, quando ormai la sua bottega va avanti da sola e non c’è più la necessità di tenere tutto sotto controllo, Mangieri decide di rispolverare martello e scalpello. Questa volta tuttavia non è più il legno la materia che egli vuole lavorare, bensì il marmo, la pietra. Comincia così l’avventura artistica di Mangieri, anzi di Mao (il soprannome nasce da un antico leader della lunga marcia). Ed è un’avventura da subito coronata di grandi successi. Loa critica d’arte, quella importante, fatta da nomi come Bignardi, Hobel Vonsutzen, comincia ad occuparsi di lui. Ad affascinare sono le sue creazioni senza tempo, che nello loro modernità paiono uscite adesso dalle botteghe di un qualche scultore romanico. Le realizzazioni di Mao infatti, vivono del respiro magico che anima le forme della grande tradizione dello scultura medioevale . Una magia che nasce dalla lotta che esse affrontano con lo materie che le imprigiono. I re, i draghi, i leoni che egli scolpisce sembrano creature imprigionate da un qualche arcano artificio nella pietra; creature che avevano una vita autonoma, già propria, che sospesa nel tempo torna ora a palpitare grazie alla rude, selvaggia manualità dell’artista. Mao non è un copista e le sue sculture non sono copie. Egli è più un medium, capace di evocare dalla rozza materia l’energia vitale che vi è contenuta. I tre bassorilievi realizzati per Santo Sofia non devono perciò essere giudicati quali semplici e banali copie degli originali trafugati. Essi sono una ricreazione di quei perduti capolavori, fatti con le stesse tecniche, lo stesso spirito e lo stesso amore di quelle antiche sculture. Mao non ha voluto replicare la Storia, che per quanto ciclica non si presenta mai uguale a se stessa, ha voluto farla rivivere, affinché con il suo antico linguaggio possa ancora una volta, e speriamo per lungo tempo, parlare al futuro.
Tobia lodice