L’amore ai tempi della peste a Giugliano, la storia d’amore tra Diana e Jacopo

L’amore ai tempi della peste a Giugliano, la storia d’amore tra Diana e Jacopo




 

L’amore al tempo del colera è stato uno dei più bei romanzi di Marquez. Analogamente triste, ma nel contempo dolce, è stato il film che da esso ha tratto spunto. Una storia di gente normale. Storie di quella gente che tante volte incontro nelle mie peregrinazioni tra diari antichi, registri e documenti di altre epoche. La storia che vado a narrare è una storia vera, nella sua sostanza. Una storia accaduta tanto tempo fa, nel 1656, quando anche a Giugliano arrivò la peste.
Diana era una bella e pia giovinetta. La casa della sua famiglia era accosta alla via dei Pragliuli. Era una famiglia tranquilla, lavoratrice, piena di onore. Cosi piena di onore che a Diana non era concessa di uscire di casa se non accompagnata e solo per andare alle sacre funzioni che si svolgevano nella chiesa di santa Sophia.

Ma come vano le cose si sà, da sempre si sa. Oggi uno sguardo, domani un incontro fortuito sulle scale della chiesa e l’amore nasce. Ed una cosa che non conosce limitazioni e divieti. Sovente si scontra con quello che è il volere e l’aspirazione dei genitori. Un buon partito, un ricco giovane, un principe a cavallo. Dalla notte dei tempi l’agognata aspettativa dei genitori è sempre un buon matrimonio.
Jacopo non era un buon matrimonio.
Aiutante del mastro bottaio che, nel cortile affianco quello della famiglia di Diana, fabbricava, aggiustava, vendeva e provava, botti per il vino, per l’acqua o per frumento ed, all’occorrenza, riparava, anche, carretti.
Di Jacopo non si conosceva la provenienza nè la stirpe. Si raccontava che fosse stato trovato sulle scale della chiesa di san Marco da mastro Giovanni, il mastro bottaio. Due braccia avrebbero fatto comodo nella bottega e poi anche la moglie arida avrebbe avuto un figlio da stringere al petto. Ma come sempre succede a chi nasce sotto la mala luna, donna Lionora, la moglie del bottaio, che era sterile dichiarata, subito dopo l’arrivo di Jacopo sfornò tre figli, che, per mala sorte del ragazzo, vissero tutti. Cosi Jacopo rimase solo come due braccia utili.
Però era bello. Tanto bello che tutte le ragazze della zona di via Cumana lanciavano occhiate furtive, nella speranza di fare breccia nel cuore di quello scanzonato garzone di una bottega artigiana.

Con tante di queste ragazze Jacopo avrebbe potuto costruire una bella famiglia. Nulla ostacolava l’unione tra diseredati, tra ragazze braccianti o serve ed un garzone senza padre nè madre. Ma Jacopo aveva occhi solo per Diana. Ed era ampiamente ricambiato. Tanto che i genitori della ragazza strinsero maggiormente le possibilità di incontri visivi. Non più un gesto, nemmanco un sorriso poteva rallegrare i due cuori.
I giorni passavano in una sorta di limbo nel quale Diana pareva avere perso una parte di se. Jacopo, da parte sua, trovava nel canto l’unica via di contatto con l’amata. Cantava, soprattutto nei silenzi degli altri, nella mattinata, nella controra, nella notte. Non potevano vietarlo e poi lui cantava bene, tante ragazze godevano delle sue serenate, immaginando che fossero dedicate ad ogni una di esse. Diana ebbe addirittura da ingelosirsene, ma l’amore di Jacopo le arrivava diritto al cuore. Quei canti, uditi da tante, erano solo per lei. La storia continuava senza alcuna speranza di esito favorevole.
Di nascosto, durante una funzione serale si erano incontrati fugacemente nella sacrestia. Avevano chiesto al sacerdote come potere sposarsi di nascosto. Magari con la sola benedizione delle mani unite. L’uomo di chiesa, commosso dalla purezza di quell’amore, cercò di sconsigliare quella soluzione ma promise di chiedere al vescovo come potere risolvere il problema. Scrisse una lettera. La risposta, seppure arrivò, non fu necessaria.
I tocchi della campana cominciarono ad annunziare troppi funerali per quel mese di luglio. Non era mese di febbri o di malattie di petto, eppure la campana aveva preso a suonare troppe volte in una sola giornata. La paura prese Diana. Quei tocchi significavano una sola cosa: era scoppiata una epidemia. Aumentava la possibilità di morire, di vedere morire, di non avere alcuna difesa se non la preghiera.
Morivano in tanti ogni giorno.
Le voci dicevano che a decine morivano nella zona di via Cumana, nelle case attorno la chiesa di sant’Anna, nella zona del “palazziello” o in quella di monte Sion. Non si poteva uscire di casa. Il quartiere di sant’Anna era quello più colpito. Nulla era accaduto sin quando il vice re non aveva imposto che una decina di carri trainati da buoi, guidati da giuglianesi, andassero a Napoli a raccogliere i mucchi di cadaveri dalle strade e portarli nelle fosse comuni.
Quegli uomini, al ritorno, avevano descritto l’infernale spettacolo al quale avevano dovuto assistere. Il triste compito al quale avevano dovuto assolvere. E mentre raccontavano diffondevano la malattia.
Erano stati i primi a morire, seguiti dalle mogli, dai figli, da coloro che ne avevano udite le parole. E le parole le avevano narrate nella bottega di mastro Giovanni. In quel luogo dove avevano portato a riparare i carri rovinati dai pesi sopportati, impuzzolentiti dai corpi trasportati.

Jacopo sicuramente ne aveva ascoltato i racconti, sicuramente aveva lavorato a riparare quei carri.
Non avere notizie era, per Diana, peggio di averne di cattive. O forse era meglio non averne, poteva anche succedere che quella cattiva non arrivasse mai.
Cercava nei volto del padre, l’unico autorizzato a cacciare la testa fuori dal portone, qualche notizia. Sperava che il suo rancore verso quel ragazzo disgraziato cessasse, almeno in una simile circostanza.
E il rancore cessò. La famiglia di mastro Giovanni era praticamente distrutta dalla peste. Si, perché era la peste. La moglie era stata la prima, seguita dai figli ed infine dal vecchio falegname che aveva raggiunto la sua famiglia nella fossa della congrega del Rosario, dentro santa Sophia.
Guardava la bocca del padre. Aspettava che cessasse di parlare. Che quello che aveva appreso era tutto in quei cinque morti. Invece con voce roca, quasi piangendo, rivelando i veri sentimenti, pronunziò quello che Diana voleva non pronunziasse mai: Jacopo era spirato da qualche minuto. Era disteso nel cortile. Su quella paglia che gli aveva fatto da materasso per una vita, sotto quel sole che lo rendeva bruno ci carne e di capelli e che, ora, non lo riscaldava più. Avrebbe voluto abbracciarlo, dandogli l’unico bacio a suggello di un grande amore mai sbocciato. Non poteva, sapeva di non poterlo farlo.

Dalla finestra lo vedeva , nell’attesa che lo portassero alla fossa comune. Lo accarezzava col suo sguardo e lo lavava con le lacrime che le solcavano il viso.
Lo vide portare via. Non seppe mai neppure dove l’avessero sepolto. Lui non era del posto, non faceva parte di alcuna congrega. Forse lo avevano sepolto alla Cappelluccia dei morti.
Diana non usci mai più di casa. Visse nel ricordo di un amore impossibile per una ragazzo del quale, una sola volta, aveva sfiorato le mani. Dissero che si fosse fatta monaca bizoca. Chissà.
Nella parrocchia di sant’Anna morirono in circa duecento nel solo mese di luglio.
Pian piano la vita ritornò. In totale si contarono centinaia di decessi nei tre mesi estivi di quel 1656.
Tanti uomini e donne dimenticati. I loro nomi segnati solo nei vecchi registri delle parrocchie. Come la storia di Diana e Jocopo……il garzone del bottaio.

Pio Iannone