LA FESTA DEI “FUIENTI” A MADONNA DELL’ARCO

LA FESTA DEI “FUIENTI” A MADONNA DELL’ARCO




La festa dei fujenti

Nel periodo Pasquale, con culmine il giorno del Lunedi in Albis, le strade della periferia napoletana e dei quartieri popolari della città sono costellati da cortei di fedeli vestiti di bianco avvolti in una fascia azzurra che si interseca con quella rossa stretta attorno alla vita.

Lunghe fila di bambini, uomini e donne danno vita a tante processioni che seguono la effige, o la riproposizione sotto forma di statua, della Madonna dell’Arco.

Sono i “fujenti” o “battenti”, appellativi riferiti alla corsa che caratterizza il percorso o al continuo movimento delle gambe e dei piedi, che continuano incessantemente a battere il suolo.

Certamente nella odierna quotidianità e nella incomprensione del fenomeno, alcuni provano un senso di fastidio capitando di trovarsi in macchina dietro una di queste processioni… ma si può considerare un omaggio ad una tradizione che si lega ad un passato pieno di valori.

Un rito che si caratterizza per la sua antichità e per il suo essere scevro da ogni controllo ecclesiastico gestito, com’è, direttamente da fedeli, per gran parte espressione dei ceti marginali che, in autonomia, danno vita ad un momento collettivo di tradizione e di fede.

Una tradizione che ha origine alla metà del 1400 quando alle porte di Santo Nastaso, oggi Sant’Anastasia, esisteva solo un rudere che testimoniava un antico di acquedotto. All’incrocio tra le varie strade, su un muro di confine, tra il XIV ed il XV secolo, una mano devota aveva affrescato l’immagine di Maria e del Bambino quasi a protezione dei viandanti. Era un’edicola votiva, che all’inizio del XVI secolo, cioè pochi decenni dopo l’avvenimento che segnò la storia di questi luoghi, registrava un culto, quello per la effige della Madonna dell’Arco, diffuso oltre ogni aspettativa. Basti ricordare che sull’antica chiesa di S. Simplicio di Villaricca, ne fu costruita una nuova, dedicata proprio alla Madonna dell’Arco, già nel 1513.

Che cosa avvenne, dunque, di tanto eclatante da trasformare una devozione locale in un culto diffuso?

Si vuole che nei pressi dell’edicola muraria alcuni giovani si sfidarono ad una partita di un gioco a palla, dove, oltre all’abilità, del giocatore si richiedevano due elementi: una palla ed un bastone. Alla fine della gara, come solito, vi fu un vincente ed un perdente.

Quest’ultimo, accecato dall’ira, scaricò la sua rabbia sull’immagine della Madonna lanciandoLe contro la palla. Una ferita si aprì sullo zigomo sinistro della rappresentazione sacra dal quale fuoriuscì abbondante sangue. Tutti i presenti gridarono al miracolo ed al giovane blasfemo toccò in sorte l’impiccagione.

Questo narra la tradizione, del resto la pietra, o la variante ‘palla’, è un segno ricorrente in molteplici manifestazioni religiose e fu, appunto, quel ‘miracolo’ a segnare la nascita del fenomeno storico della festa di Madonna dell’Arco. S’iniziò, allora, una devozione caratterizzata da una particolarità umana, sociologica e religiosa, unica.

All’indomani dell’evento fu decisa la costruzione di una cappella per raccogliere gli accresciuti devoti.

Dopo oltre un secolo un episodio tragico rinvigorisce il culto per la sacra immagine: durante le festività Pasquali del 1589, una donna accompagnò il marito, gravemente sofferente agli occhi, per offrire alla Madonna un ex voto di cera. La donna s’incamminò più svelta, accompagnandosi con un porcellino che le sfuggì nel trambusto della folla. Quando il marito la raggiunse, alla porta della cappella, la donna cominciò ad imprecare contro l’immagine, il suo creatore e coloro che vi recavano in pellegrinaggio. Il marito cercò di fermarla conscio della punizione che sarebbe seguita a quella azione scellerata.

L’anno successivo, la notte tra la domenica di Pasqua ed il lunedì in Albis del 1590, alla donna, già da lungo tempo sofferente e allettata, cascarono i piedi. Senza sofferenze o perdita di sangue, anzi senza che lei se ne accorgesse…piedi ancora esposti nell’ambito della fabbrica sacra.

Ancora oggi risuona nelle nostre strade il grido dei “fujenti”, il grido che caratterizza le questue, un grido antico:

Chi è devoto/’e sta Maronna ’e ll’ Arco!/Sore’, ’a Maronna!

Il pellegrinaggio del Lunedi in Albis al Santuario della Madonna dell’Arco dà avvio al ciclo primaverile dei rituali Mariani. Possiamo affermare che si tratta del culto popolare più importante della Campania, sia per l’elevata partecipazione di devoti sia per l’aspetto collettivo ed emotivo, caratterizzato da una ‘violenta’ arcaica religiosità che mai l’autorità ecclesiastica è riuscita a controllare totalmente.

Per il periodo primaverile ,durante il quale la ritualità prende corpo e i propri tratti peculiari, si può affermare che si è dinanzi a un composito rituale primaverile di origine precristiana che affonda le radici nelle più remote culture mediterranee. Il rituale pellegrinaggio è contrassegnato da un’incessante corsa dei «fujenti» che ha come meta il Santuario luogo dove, ogni anno, si ripetono esasperate crisi di religiosità popolare.

Il volto ferito, forse è la più antica fra le Madonne che sanguinano, rappresenta il simbolo di un dolore antico, all’origine del culto. Il dolore delle madri che piangono i dolori della vita e delle avversità che affliggono le proprie famiglie, soprattutto di salute.

Quella dei «fujenti» è una presenza molto forte perché sono dotati di una struttura capillare di organizzazione su base territoriale che inquadra gli aderenti in associazioni, dedicate al culto, ciascuna delle quali organizza una «paranza», vale a dire un gruppo che mesi addietro (spesso dopo le festività natalizie) dà vita a questue pubbliche con la tipica «voce d’a cerca», per l’appunto, canto di questua.

La Domenica delle Palme, il Sabato Santo e la Domenica di Pasqua, le associazioni svolgono le «funzioni»: atti devozionali che le «paranze» compiono, accompagnate da bande musicali, presso le edicole della Madonna situate lungo la strada.

Il pellegrinaggio rappresenta il culmine del ciclo rituale, al quale i «fujenti», legati alla Madonna da un voto o da una grazia ricevuta, giungono dopo una lunga fase preparatoria, nonché carichi di fatica e di attese. Sulla soglia del Santuario, sale la tensione e il pellegrinaggio si trasforma in dramma collettivo attraverso una tensione che permea i gesti di una ritualità millenaria. Dinanzi al quadro della Madonna molti, vinti dalla tensione e dalla sofferenza, urlano la devozione tra pianti e preghiere e non è raro registrare casi di “trance mistica” che sfocia in una gestualità propria della possessione.

Questi episodi che si scostano dai semplici svenimenti per le loro particolarità, irrigidimento del corpo preceduto da urla e pianto, rimandano a forme culturali di alterazione degli stati di coscienza. Una sorta di trade-union con le forme di tarantismo pugliese in passato frequenti anche a Napoli e dintorni. Pertanto, la corsa assume frequentemente i connotati di una vera e propria danza che prelude al passaggio ritualizzato, che precede la crisi. Manifestazioni che ribadiscono l’analogia delle movenze gestuali tra i «tarantolati» e i «fujenti» presentando in ambedue in casi il corpo irrigidito, le mascelle serrate, le braccia gettate all’indietro e gli atti di autolesionismo.

All’esterno del Santuario il sottofondo della musica prodotta dai suonatori che animano le schiere di cantatori e danzatori immette nel mondo della alterazione psichica attraverso la continua cadenza ritmica delle “tammorre”. Si tratta in effetti di un rituale che non si è lasciato integrare, nè inglobare da normative ecclesiastiche o da strategie pseudo culturali, mosse dall’intento di piegarlo ai dettami del consumismo. Un rituale che mantiene una propria ortodossia, che resiste all’imperante «omologazione culturale» che l’autorità ecclesiastica ha sempre tentato di controllare, ostacolare e reprimere le forme più violente di tale rito.

Secondo il Maestro Roberto De Simone (1933) «il problema è che questa celebrazione, per sua natura, sfugge alle regole dell’ufficialità. È l’espressione di gruppi sociali del sottoproletariato che attraverso momenti collettivi come questo celebra le proprie regole e le difende da qualsiasi tentativo di regolamentazione esterna. Il primo divieto di compiere il pellegrinaggio a piedi nudi, per esempio, risale al 1972 ma ancora oggi numerosissimi fedeli continuano a compiere il percorso senza scarpe».

La ritualità, come si può vedere dai numerosi video postati sui social, ha subito delle mutazioni nel corso degli anni: agli autentici volti degli esecutori che marcavano il territorio con la loro identità di gesti, dei movimenti del corpo, che, volontariamente o involontariamente, comunicavano un preciso rituale antico, anche attraverso la danza e le musiche, sono subentrati, in alcuni casi, rappresentati di differente estrazione culturale che vi giungono spinti da diverse motivazioni, soprattutto mediatiche, ma non da concrete esigenze devozionali.

Nonostante questo parziale scollamento dalla forma storica la devozione per la Madonna dell’Arco serba una misterica arcaica con una serie di condotte autonome operanti da tempo indefinito e condivise dalla collettività che in tal modo celebra il culto.

Un rito collettivo catartico della classe subalterna che purifica interiormente e porta a una contemplazione comprensiva e superatrice della colpa o delle passioni, utile per reprimere l’angoscia esistenziale che mette in atto, ora più che mai, in questo drammatico, riti simbolici e “magici” per controllare l’apocalisse e scongiurare ciò che Ernesto de Martino chiamava «crisi della presenza». Ovvero il momento nella storia umana che pone la possibilità – se non addirittura l’inevitabilità – dell’impossibilità di esserci nel mondo e nella storia.

Elaborazione del testo basata su pubblicazioni di Domenico Sabino, Marino di Nola e dell’Istituto Centrale di Demoetnoantropologia del Ministero per i Beni e le Attività Culturali

a cura di A.P. Iannone