Le figurine sostituivano di fatto il denaro con l’uso delle carte da gioco, in quanto si utilizzavano per le puntate, per costituire la posta in gioco. In questo caso i giocatori avevano soltanto un valore di capitale, perché l’operazione del gioco si esplicava con le carte napoletane in alcune sue varianti. Si giocava, dunque, al Mazzetto, al Tre carte, alla Stoppa. Poiché l’elemento competitivo era rappresentato dalla verifica immediata di perdite e guadagni, era privilegiato il veloce gioco del Mazzetto. Uno dei ragazzi teneva il banco e gestiva il gioco garantendo la copertura delle puntate. Si iniziava a giocare attribuendo questo ruolo a sorte, con la conta delle dita o con lo scoprimento della carta più alta pescata dal mazzo. La mano, ovvero il banco e la gestione, passava ad un altro giocatore, che diventava cartaro, quando questi vinceva con un Re. Ma se questi non aveva l’evidente possibilità di coprire le giocate per l’esiguità del suo monticello di giocatori, proponeva di vendere la mano al migliore offerente. Poteva capitare, in questo caso, che gli altri ragazzi congiurassero per farlo fuori, per sbancarlo e umiliarlo facendolo rimanere con le tasche vuote. Pertanto, tutti rifiutavano di prendersi la mano, obbligando il fortunato malcapitato a fare i mazzetti per continuare il gioco, e con un paio di giri di grosse puntate, al limite estremo della disponibilità del banco, cercavano di ripulirlo. Bastava che a questi capitasse la carta più bassa sotto il proprio mazzetto, ed aveva perso tutto. Ma poteva succedere che gli arridesse smisuratamente la fortuna per quattro o cinque giri, pescando la carta più alta, per rientrare trionfalmente in gioco con una cospicua riserva di figurine vinte. In questo caso il commento icastico degli altri ragazzi si riduceva in una sola colorita espressione di schifata meraviglia, ovvero «’I che mazzo!», che noi tradurremmo in «Che fortuna sfacciata!».
Le regole per la gestione di questo gioco erano molto semplici per i ragazzi. Ogni giocatore puntava su uno o più, mazzetti; su questo particolare ci si accordava prima di iniziare a giocare, come pure sull’entità della puntata massima. Chi teneva il banco era tenuto a garantire subito la copertura di tutte le puntate, esponendo l’eguale numero di giocatori puntati su ogni mazzetto. Quindi scopriva i mazzetti uno alla volta , dopo aver sbirciato la carta sotto il proprio mazzetto, per creare una sorta di suspense. Le modalità di raccolta e distribuzione delle poste vinte o perdute erano comunque regolate a sua discrezione. Egli si aggiudicava tutte le puntate delle carte inferiori o uguali alla sua e ci rimetteva sulle altre.
Durante il gioco con le carte napoletane si poteva verificare che il cartaro imbrogliasse, o almeno se ne aveva il sospetto, avvalorato dalle sue ricorrenti vincite che non rispondevano al più logico calcolo delle probabilità. Allora lo si accusava, mentre scopriva le sue carte, di aver vuttato ‘a ‘mbocchia, e in questo modo si cercava di ritirare la propria posta scoprendo e mischiando tutte le altre carte. Quasi sempre si cercava di ricomporre l’accordo tra i giocatori; ma a volte si originava la lite, arrivando all’uso violento delle mani. Da questo parapiglia sortiva un altro effetto: il ragazzo più lesto e coraggioso faceva ‘nzuglio; con questa caratteristica espressione si intendeva lo scippo dei giocatori o di qualsiasi altra cosa dalle mani del vincitore, con la conseguente fuga ed inseguimento, che spesso si risolveva con il lancio in aria della refurtiva e l’accalcarsi degli altri ragazzi che cercavano di accaparrarsela, sordi alle inutili minacce e piagnistei del malcapitato ex vincitore.