I Missionari Giuglianesi perduti nella notte

I Missionari Giuglianesi perduti nella notte




 

I MISSIONARI GIUGLIANESI PERDUTI
NELLA NOTTE DELL’OBLIO GENERALE

Nel guardare in TV la pubblicità del film “Silence”, di Martin Scorsese, narrante la storia dei missionari gesuiti perseguitati in Giappone, per la loro attività di evangelizzazione, con il pensiero correvo a quanto avevo letto nelle Memorie Historiche delle terre di Giugliano e pensavo a quanti abbiano mai saputo della storia del missionario giuglianese che, nella realtà, ha subito, sino alla morte, le conseguenze della sua fede, nel Giappone della metà del 1700. Nunzio d’Orta era il suo nome ed aveva seguito le orme di un suo antenato, Galasso d’Orta, che lo aveva preceduto di oltre 150 anni nella missione di sacerdote. Agostino Basile ne pubblica, nella sulla opera del 1800, le ultime lettere pervenute a Giugliano. Ritengo sia giusto ricordarli narrando le loro storie. Cominciamo da Galasso d’Orta. È il 1604, a Giugliano arriva una missione di Gesuiti. Il loro compito è evangelizzare le genti ed istruire il clero locale. La guida Simone de Franchis. Fonda la Congregazione della Natività di Maria, a Licoda, che in poco tempo diventa la più numerosa tra la tante congregazioni locali. Dopo l’avvio iniziale la congregazione accusa sintomi di stanchezza, per contrasti con altre congregazioni, ma l’opera di Galasso d’Orta la rinvigorisce sino a realizzare il primitivo nucleo della chiesa, tutt’ora esistente. In essa è il primo a celebrarvi messa agli inizi del 1614, nello stesso anno in cui si ritirò nel collegio gesuita di Napoli e parti per Cartagena delle indie. La località, posta in Colombia, fu raggiunta dopo nove mesi dalla partenza da Roma. Narra la realtà trovata in quelle terre nella lettera del 15 agosto 1618. Cartagena delle indie era il maggiore porto di attracco delle navi spagnole e portoghesi cariche di uomini e donne rapiti sulle coste africane e là portati per essere utilizzati come schiavi. Al momento del suo arrivo contava circa 18.000 abitanti, come ci fa sapere Galasso, che nel frattempo ha assunto il nome di Carlo, tra spagnoli, indios e schiavi neri. Il compito di Carlo è la loro catechizzazione e evangelizzazione. Non si sottrae alla considerazione che in lui e nella fede gli schiavi trovano una motivazione per mitigare la sofferenza di una vita terribile: poca acqua, pessimo cibo, nudità totale dovuta al calore asfissiante. Quasi a voler giustificare la sua partenza ai familiari, rimasti a Giugliano, rammenta le indicazioni evangeliche di una vita retta vissuta nei dettami del Cristianesimo. Condanna la ricchezza ed i cattivi Cristiani che ossequiano le immagini coltivando odio nel cuore. Insomma leggendo lo scritto di Galasso, Carlo, D’Orta si ha una visione esatta della coerenza di pensiero che oggi si ritrova nel gesuita Francesco, Papa di Roma. Di Galasso d’Orta non si ebbero più notizie. È ipotizzabile sia morto in quelle terre d’America e sepolto in qualche chiesa di Cartagena. Ben diversa è la storia di Nunzio d’Orta. Sono passati quasi cento cinquanta anni dalla partenza di Galasso, la evangelizzazione prosegue in Oriente con la Società per le Missioni Estere, fondata nel 1653, dal gesuita Alexandre de Rhodes. Nunzio parte attorno al 1750. È membro della stessa congregazione Giuglianese della Natività di Maria, fondata da Galasso, del quale si dichiara discendente. Scrive dalla regione del Tunkino. Una zona a cavallo tra il sud della Cina e l’odierno Vietnam. Scrive dalle carceri criminali. Scrive alla mamma, Caterina Taglialatela ed alla sorella Clementia. È un racconto terribile quello che descrive le vessazioni costrette a subire per avere svolto il suo ministero. È stato catturato una mattina del mese di maggio del 1767 nella chiesa della località di Kè Saj’ dopo avere celebrato messa e comunicato i fedeli precedentemente confessati. È accusato di avere operato per distruggere la religione tradizionale e quella dei numi tutelari locali, quelli che Nunzio definisce diavoli. Legato ad una colonna della chiesa deve assistere alla spoliazione degli arredi sacri e l’asportazione di quanto dovrà servire ad accusarlo di blasfemia, soprattutto le immagini sacre. Poi, come scrive, viene portato in carcere e posto ai ceppi chiamati “cum” : “ un tronco lungo per mezzo diviso in lunghezza, fermamente fissato in terra da travicelli infilzati in terra dall’una e dall’altra estremità, indi racchiusi i piedi dell’incarcerato ne forami del detto “cum”, dall’una e dell’altra estremità con cunei ferrato, resto il reo disteso per terra appena potendosi voltare dall’uno e dall’altro lato”. Dopo alcuni giorni viene trasferito in un carcere criminale. “ Il viaggio è fatto rinchiuso in una sorta di gabbia fatta di giunchi senza cibo”. Tale era la crudeltà che le guardie gli riservavano che la gente dei villaggi accorreva per vedere quello spettacolo, neppure riservato ai criminali peggiori. Arrivati al carcere viene posto ai ceppi e rinchiuso in un angusto spazio tra delinquenti della peggiore risma. Quasi a volere consolare la madre, Nunzio descrive le punizioni che il Signore ha inflitto al mandarino colpevole della sua cattura: disgrazie, malattie, perdita di raccolti. Oltre a ciò numerosi fenomeni atmosferici, da eclissi solari a triplicazione della sole e della luna nel cielo. Quasi a volere creare una sorta di ascesa al cielo della sua anima, preannunziata dal Iddio. A nulla sono valsi i tentativi di riscattarlo messi in atto dal suo ordine religioso ed attende la sorta della decapitazione pregando nel silenzio della sua gabbia di giunco. Di lui non ebbero più notizie e fu dichiarato morto, per esecuzione capitale, due anni dopo la data della ultima lettera, il 15 luglio 1768. Due storie perse nel tempo e nella labile memoria della gente eppure qualcuno del clero locale potrebbe trasmettere altrove la storia di Nunzio d’Orta affinché un riconoscimento della sua vita di Cristiano possa portarlo agli onori degli altari.

Pio Iannone , 15 febbraio 2017