I fatti del 30 Settembre 1943

I fatti del 30 Settembre 1943




13 MARTIRI IN PIAZZA ANNUNZIATA

L’8 settembre 1943 l’Italia firma l’armistizio con gli Stati Uniti, determinando il ribaltamento dei fronti; ci troviamo, così, col nemico in casa, i Tedeschi che fino al giorno prima erano stati i nostri alleati. A Giugliano la situazione non è diversa dalle altre parti, con gli occupanti acquartierati sulla strada che conduce a Villaricca. L’esercito è in rotta. Una ritirata lenta, progressiva, verso posizioni più vantaggiose. Vige il coprifuoco, ed il terrore. I Tedeschi hanno stabilito che, per ogni loro soldato ucciso, avrebbero fucilato dieci Italiani. Ma gli uomini sono spariti, fuggendo nelle campagne o restando nascosti sui tetti, perché i Tedeschi, nella loro pesante ritirata, li stanno cercando per la deportazione. La nostra gente avverte l’avvicinarsi della vendetta tedesca. Si è avuto già qualche morto sulle strade periferiche, ed in molti decidono di lasciare i campi per trovare scampo e protezione in paese, tra le case nascoste dietro i vicoli. Le donne fanno la guardia a mariti e fidanzati che si spostano sui tetti da un capo all’altro del paese, trascorrendo in ozio le lunghe giornate di settembre, incollati alla voce di una vecchia radio accesa, giocando a carte o fantasticando una improbabile insurrezione, armati di qualche vecchio moschetto. I Tedeschi hanno fatto saltare le centrali elettriche, e nelle case si riaccendono i lumi a petrolio e le candele.  

Ormai si ha notizia dell’imminente arrivo degli Americani, ed alcuni uomini, in piazza Trivio, diventano più baldanzosi. Sanno come dimostrare tutto il loro imprudente coraggio: fermano la jeep di Pietro Watterman (altre testimonianze sul giovane tedesco), un ignaro soldato altoatesino di 22 anni, che parla forse l’italiano meglio del tedesco. Lo tirano giù e lo picchiano a sangue, ferendolo al volto, per sottrargli le munizioni, le coperte, le taniche di benzina ed il portafoglio con il denaro. Quel mercoledì 29 settembre, verso le ore 16, in poco meno di cinque minuti, sul Corso Campano sprofondato in un silenzio ovattato e abbacinato dal sole pomeridiano, si consuma il prologo di una tragedia immane, nel rimbombo concitato dei passi che si rincorrono sul basolato. All’improvviso un’esplosione; poi un altro scoppio, forse di una bomba a mano lanciata contro il muro del fabbricato di piazza Trivio che guarda diritto in via Licoda. Quell’uomo in divisa corre in direzione di piazza Annunziata; si volta a guardare spesso alle proprie spalle: si sente braccato. Qualcuno lo insegue e grida: «Accerìtelo, accerìtelo, è disarmato». Una pistola crepita all’improvviso: cinque, sei colpi… L’eco dei passi si è spenta. Solo una voce: «L’aggio acciso». Subito la notizia si diffonde: «Hann’acciso a nu tedesco».  

E’ imprudente rimanere nelle strade. Il soldato giace all’angolo del vico Gambuzzi, con le braccia aperte, come crocifisso, su un cumulo di immondizia, crivellato di colpi. Il cadavere fa il giro del paese, trasportato dagli abitanti di quel vicolo, timorosi di rappresaglie. Una donna suggerisce di sotterrarlo in un giardino. Invece, danno dieci lire a Peppino ‘o scemo e glielo sistemano sopra un carrettino per farlo scaricare dietro il Cimitero. Ma, per il sopraggiungere di un pattuglia tedesca, il carico viene precipitosamente abbandonato all’angolo di via Camposcino, sull’incrocio della Pietra Bianca. All’alba di giovedì 30 settembre, la paura stende un velo di apprensione. Prima di mezzogiorno giungono in paese truppe motorizzate, protette da carri armati leggeri. La reazione si annunzia violenta. Nel primo pomeriggio, verso le 15.00, comincia il rastrellamento, poiché nessuno si era presentato a denunziare la responsabilità del delitto. Si diceva che i Tedeschi, per il soldato ucciso, avrebbero fucilato dieci Giuglianesi. Ma ormai la furia omicida degli ex alleati risponde soltanto ad una smisurata e sbrigativa sete di vendetta. Le pattuglie tedesche, muovendo dalla strada provinciale di Villaricca, dove si trova la sede del Comando, dilagano nei vicoli tra via Licante ed il Corso Campano. Gli uomini, per la maggior parte, sono strappati alle loro case, dove fidavano di essere protetti dalla vigile sorveglianza delle loro donne.
Alcuni sono catturati in strada, ignari addirittura dei motivi di quella rappresaglia: vengono occasionalmente da Villaricca, come Aldo Sarnelli e Mario Schiattarella, o si trovano a passare per Giugliano, per chissà quale altro affare, come Francesco Borzacchelli. Ernesto Cerqua si trova a transitare per il Corso Campano, tornando dal lavoro nei campi. Antonio Guarino, Umberto De Biase e Stefano Di Marino sono presi insieme nei pressi del vico Sorbo. Salvatore Sestile cade nelle mani dei Tedeschi mentre esce dalla cantina “d’’o Masto d’’a (g)rotta”. Con lui viene catturato anche Luigi Bastiani, che è claudicante. Un’altra pattuglia si spinge nei dedali di vico Miciano, stanando gli uomini casa per casa e riuscendo a trascinare in piazza Gennaro Vassallo, Felice Granata, Clemente Borretti e Paolo Cacciapuoti. Giovani e adulti vengono condotti in piazza Annunziata, mentre tre carri armati ed un lungo cordone di soldati presidiano le strade confluenti in piazza.  

Sono in tredici, schierati ai piedi del sagrato, davanti alla baracca dell’uva, ad aspettare la morte con le mani intrecciate sul capo. Crepitano i mitra e cadono uno accanto all’altro, nel pomeriggio di quel 30 settembre 1943, alle ore 16:05.
Feriti, alcuni si rialzano contorcendosi, nel tentativo istintivo di scappare, ma stramazzano al suolo falciati da un’altra raffica di proiettili. Rimangono a terra, con accanto i soldati armati che li sottraggono all’amore feroce delle loro donne che dall’angolo di vico Miciano gridano strazianti inutili invocazioni.
Dopo più di mezz’ora i Tedeschi si ritirano, e nella piazza accorrono le donne ed i ragazzi, a riconoscere i propri cari straziati. Viene subito riaperta la chiesa, ed il Rettore don Vincenzo Panico scende in piazza ad impartire la benedizione tra i morti e i moribondi che boccheggiano sul basolato. Le donne si riversano quindi nel tempio mariano, ad implorare pietà davanti al simulacro della Madonna della Pace e a sfogare nel pianto tutta la loro incontenibile disperazione. Poi ritornano i soldati ad impaurire quella gente straziata, e la piazza rimane abbandonata in una atmosfera di truce desolazione.  

Tratto dal libro «Testimonianze ed eventi a Giugliano dall’8 settembre al 5 ottobre 1943», edito dal Centro Studi Alberto Taglialatela.

 

FUCILATI IN PIAZZA ANNUNZIATA
alle ore 16:05 del 30 settembre 1943

Luigi Bastiani
Luigi Bastiani aveva 36 anni, ed era Agente delle Imposte di Consumo. Nato ad Alberona (Pola) il 4 maggio 1907 da Giuseppe e da Domenica Millevoi, si era sposato a Portici con Adelina Marrazzo nel 1929, ed abitava a Giugliano dal 1934, al vico Olmo 33 (ora via Biagio Riccio). Aveva varie figlie, di cui una col nome di Anna. Forse la famiglia andò via da Giugliano dopo la sua morte. Era claudicante, e fu catturato nei pressi di piazza Annunziata, di fronte al vico D’ Ausilio, insieme a Salvatore Sestile.

Clemente Borretti
Clemente Borretti aveva appena 18 anni, era studente ed abitava al vico Pinto. Era nato a Giugliano l’8 gennaio 1925 da Giuseppe e da Maria Rosaria Saladino. Il giovane fu catturato per la sua ingenuità, non ponderando la portata del pericolo, o forse preso dalla preoccupazione che potesse capitare qualcosa alla fidanzata che abitava nello stesso palazzo. Infatti, era già al sicuro, nel sottotetto, ma volle scendere al primo piano, per andare dalla fidanzata. Fu visto dai Tedeschi che passavano con altri tre malcapitati e fu trascinato in piazza Annunziata per essere fucilato. Durante la tradotta svenne in istrada; rialzato dai soldati, venne ricongiunto agli altri. La sorella tentò di seguirlo, ma fu fermata, insieme alle altre donne, all’angolo del vico Miciano (ora via Mattia Coppola).


Francesco Borzacchelli

Francesco Borzacchelli aveva 41 anni, faceva il carpentiere ed era nato a Giugliano il 4 giugno 1902 da Domenico e da Carmela Di Fiore. Coniugato con Maria Luisa Palumbo, abitava al vico Olmo 31 ed aveva sei figli, dagli 8 ai 17 anni.
Nel pomeriggio di quel giovedì 30 settembre 1943 Francesco Borzacchelli veniva a piedi da Marano, tornando dal lavoro. Nei pressi del vico Sorbo si imbatté in una pattuglia di Tedeschi e cercò di impietosirli dicendo che lui ormai aveva oltre quarant’anni e doveva badare ai sei figli. Ma essi lo trascinarono verso piazza Annunziata, mettendolo assieme agli altri quattro uomini fatti prigionieri in quello stesso posto. C’erano, infatti, Umberto De Biase, Antonio Guarino, Stefano Di Marino e Giacomo Palumbo, il quale riuscì poi a scappare con la complicità di un soldato di origine australiana.
In quel mentre si trovò a passare in via Licante il figlio Giuseppe, di quattordici anni; questo faceva il ragazzo di barbiere, ed era stato mandato in giro a radere a barba ai clienti che se ne stavano nascosti.
Giuseppe era passato in mezzo all’imponente schieramento di soldati e automezzi tedeschi che dall’angolo di via Fortunata Del Forno presidiavano la zona fino all’incrocio del vico Sorbo. Il ragazzo vide che c’era anche il padre tra gli uomini catturati e gli si avvicinò.
«Ma cosa fate? – chiese, implorando, ai soldati tedeschi. – Perché avete preso mio padre? Lasciatelo andare a casa!».
Francesco Borzacchelli intimò al figlio di andare via, di tornarsene subito a casa, e di non insistere, perché avrebbero potuto trattenere anche lui.
Giuseppe si fermò nel cortile del caseggiato all’angolo del vico Sorbo; da lì sentì poi le tre raffiche di mitraglia, e gridò «Hanno ucciso mio padre!». Dopo circa mezz’ora corse in piazza Annunziata, che era rimasta deserta, e fu sconvolto dalla vista del padre massacrato a terra, in mezzo agli altri morti. Da quel giorno Giuseppe non riuscì più a parlare speditamente, impedito dalla balbuzie per la scossa subìta. Fu egli stesso a portare a casa la tragica notizia.
I familiari provvidero a seppellire Francesco Borzacchelli dopo l’arrivo degli Alleati, costruendogli la bara con il legno dei mobili.


Paolo Cacciapuoti

Paolo Cacciapuoti era nato a Giugliano il 26 settembre 1905; aveva 38 anni ed era carrettiere; ma si dedicava a più di una attività. Era sposato da dodici anni con Maddalena Palumbo, la quale aveva già tre figli da un precedente matrimonio. Abitava al vico Pinto. Nel 1943 i primi due figli (della moglie) erano prigionieri; noi abbiamo potuto parlare con l’altra figlia acquisita, Rachele, la quale allora aveva 15 anni, e fu testimone ai fatti, accorrendo tra i primi in piazza dopo la fucilazione.
Paolo Cacciapuoti fu preso dai Tedeschi insieme al cugino Felice Granata e a Gennaro Vassallo, mentre tentavano di scappare saltando da un muro. Il Cacciapuoti voleva fuggire da un finestrino per trovarsi nella zona di Licante, insieme ai familiari. Ma il cugino Felice lo chiamò per nascondersi insieme nel sottotetto, essendo armato di fucile. Cacciapuoti era già salito, ed i Tedeschi arrivarono mentre il Granata stava sulle scale, e li tirarono giù. La figlia Rachele era scappata insieme ad altri, rifugiandosi al vico topo, nel cosiddetto Luogo Della Gatta. Rachele corse in piazza dopo che li avevano fucilati, a distanza di una mezz’ora; fu tra i primi ad accorrere; rivoltò i cadaveri in cerca del patrigno; dalla giacca cercò il portafogli, perché sapeva che aveva dei soldi addosso; ma il portafogli era stato trapassato da un proiettile che lo aveva colpito al petto. Un altro proiettile lo aveva colpito sotto un piede, quando ormai era già a terra. Pensò di trasportarlo al vicino Ospedale, aiutata da un uomo accorso insieme a lei. Ma sentirono tornare i Tedeschi e fuggirono tutti senza potersi riavvicinare ai cadaveri.


Ernesto Cerqua

Ernesto Cerqua era nato a Giugliano il 4 ottobre 1911; aveva 32 anni, ed era contadino. Il padre si chiamava Francesco e la madre Carmina Iacolare; non era sposato, ed abitava a via Antimo Panico 61. Non siamo riusciti a trovare familiari a Giugliano; la sorella Giovanna, nata nel 1898, era emigrata a Potenza nel 1960, dove ci risulta vivente la moglie di un nipote.


Umberto De Biase

Umberto De Biase aveva 43 anni; era nato a Napoli e faceva il muratore, impiegato nell’Opera di Risanamento in via Sant’Anna a Parule, dove risiedeva anagraficamente insieme con la seconda moglie Giuseppina Accardi ed i suoi cinque figli. La primogenita aveva circa sedici anni; l’ultima bambina, appena un anno. Da circa due anni era sfollato a Giugliano, al numero 7 del vico Sorbo, presso gli zii Antonio e Giulio Palumbo. Egli fu sepolto nel Cimitero di Giugliano; ma dopo qualche anno, in occasione della riesumazione, i suoi resti mortali furono trasferiti dai familiari a Napoli.
Umberto De Biase si trovava in casa del cugino Giacomo Palumbo, che aveva 32 anni e faceva il sarto;
di pomeriggio erano soliti ritrovarsi da questi una quindicina di amici, per giocare a carte e tenersi riparati dai Tedeschi che cercavano gli uomini da deportare in Germania.
Il 30 settembre una pattuglia di soldati tedeschi bussò violentemente a quel portone del vico Sorbo per rastrellare gli uomini da fucilare, perché nel cortile vi si era rifugiato Antonio Guarino. Il sarto Giacomo Palumbo, dopo aver rinchiuso gli altri amici in una stanza, si affacciò al portone, rassicurato dal suo stato fisico, perché era claudicante fin da bambino e per camminare era costretto a fare uso di una gruccia. Egli rispose ai soldati che in quel cortile non c’era nessuno. Intanto, Umberto De Biase era uscito, convinto che i Tedeschi fossero venuti a prelevarlo per portarlo a lavorare, come era successo altre volte. I militari, indispettiti, dopo aver catturato il Guarino e il De Biase, costrinsero anche Giacomo Palumbo a seguirli verso piazza Annunziata.
Davanti al vico Sorbo furono catturati anche Stefano Di Marino e Francesco Borzacchelli; quest’ultimo stava tornando dal lavoro per recarsi a casa, al vico Olmo.
Intanto, Giacomo Palumbo era rimasto indietro rispetto agli altri, perché era invalido e claudicante. Un soldato di origine australiana, che parlava italiano, incoraggiò il Palumbo a scappare lontano, perché la pattuglie sarebbe tornata indietro a prelevarlo. Egli, dunque, riuscì a fuggire e rimase a lungo nascosto in un porcile, in mezzo agli animali.


Stefano Di Marino

Stefano Di Marino aveva 35 anni; era muratore, nato a Giugliano il 7 luglio 1908 da Francesco e da Rosa Migliaccio. Era sposato da appena due mesi con Rosa Iorio, di Grumo Nevano, la quale aveva 29 anni ed era precedentemente già vedova. Abitava a Giugliano in via Collina 21, nei pressi del vico Topo. Forse la moglie andò via da Giugliano subito dopo la sua morte; la troviamo dopo pochi anni a Villaricca in via Ritiro. Egli fu catturato al vico Sorbo, insieme ad Antonio Guarino e Francesco Borzacchelli.


Felice Granata

Felice Granata aveva 40 anni, era contadino ed abitava al vico Pinto. Nato il 28 giugno 1903 a Giugliano, da Giuseppe e da Marianna Cacciapuoti, era sposato con Rosa Porcaro dal 1931 ed aveva quattro figli. I particolari della cattura ci sono stati riferiti dai familiari di Paolo Cacciapuoti e Gennaro Vassallo, poiché abitavano vicini e furono presi assieme.

 


Antonio Guarino

Antonio Guarino era nato a Giugliano il 30 ottobre 1886; era Guardia Regia. Vedovo di Luigia Pianese, aveva quattro figli, dagli 11 ai 17 anni. Abitava nella zona del Selcione, all’ imbocco del vico Mercato Agricolo. Abbiamo parlato con il figlio Giovanni, che al momento dei tragici eventi aveva 15 anni. Egli non fu presente alla fucilazione, perché si trovava nelle campagne oltre il mercato ortofrutticolo, ma udì il crepitare della mitraglia e subito dopo dei colpi singoli il cosiddetto colpo di grazia per coloro che non erano morti subito.
Antonio Guarino fu preso dai Tedeschi in un cortile del vico Sorbo, dove era solito riunirsi con gli amici nel pomeriggio, dove si era rifugiato per sottrarsi alla cattura; egli stava andando, infatti, dal tabaccaio di via Licante e, vedendo i soldati, cercò di tornare indietro riparando dietro un portone. Ma qui fu raggiunto dai militari, e insieme a lui furono catturati Umberto De Biase, Stefano Di Marino e Francesco Borzacchelli.
La notizia della fucilazione subito si sparse, e dalla campagna accorse il figlio Giovanni. Questi aveva saputo che anche suo padre era stato ucciso, e lo cercò tra gli altri cadaveri ai piedi del sagrato, davanti all’Ospedale. Un cadavere stava poco discosto, verso l’entrata della chiesa; forse aveva tentato di fuggire, o era moribondo e le suore avevano cercato di trasportarlo dentro l’Ospedale. Il ragazzo quindicenne voltò tutti gli altri cadaveri, ma non trovò il padre; rinvenne solo il suo cappello trapassato da un proiettile. Era l’imbrunire, e la ricerca continuò affannosamente per tutta la nottata. L’indomani mattina si seppe che uno dei fucilati era riuscito a scappare dentro l’Ospedale, aiutato dalle suore; il figlio riuscì ad entrare nel giardino della chiesa, e trovò il padre adagiato in un letto al primo piano: un proiettile solo gli aveva trapassato il corpo dalla spalla sinistra all’anca destra, ledendo gli organi interni. Evidentemente non era caduto sotto i colpi della mitraglia, ma era stato raggiunto da un colpo di grazia quando forse stava sopra i cadaveri degli amici sventurati, fingendo di essere morto, sperando di riuscire a salvarsi. Ferito, subito dopo che i Tedeschi si erano allontanati, raggiunse l’Ospedale dove fu accolto dalle suore, e la porta fu chiusa. C’era il medico Pietro Micillo ad assisterlo, al quale il Guarino raccomandò i propri figli. Venne anche la pattuglia dei Tedeschi a cercarlo, e lo lasciarono nel letto perché ormai era moribondo. Sapendo di essere prossimo a morire, domandò al figlio se le labbra e la lingua gli erano diventate scure; il ragazzo rispose di sì, non sapendo cosa volesse significare. Morì la sera del 1° ottobre in Ospedale, e da lì fu portato al Cimitero, dove giacevano, davanti al cancello, gli altri dodici fucilati. Il fratello provvide personalmente a scavare la fossa per la sepoltura. Il medico Micillo si occupò della famiglia del Guarino e curò gratuitamente Giovanni che era affetto dalla malaria.


Aldo Sarnelli
Aldo Sarnelli aveva 16 anni, era nato a Villaricca ed era studente presso i fratelli Maristi di Giugliano. Il giovane viveva a Villaricca, in via Carisone, insieme con i genitori Luigi ed Immacolata Maione. La sorella Francesca aveva sposato Mario Schiattarella, insieme al quale fu preso dai Tedeschi e fucilato. Abbiamo parlato con il fratello di Aldo Sarnelli, Luigi, il quale allora era prigioniero in America. I fatti gli furono riferiti dal padre.

 

Mario Schiattarella
Mario Schiattarella aveva 33 anni, era nato a New York ed era autista dell’ATAN. Abitava a Villaricca, in via Carisone, era sposato con Francesca Sarnelli ed aveva tre figli, l’ ultimo dei quali di un anno e mezzo.
Oltre ad essere cognati, il Sarnelli e lo Schiattarella erano cugini ed abitavano nello stesso palazzo a Villaricca. Quel pomeriggio del 30 settembre 1943 stavano venendo a Giugliano insieme per comprare le cartine delle sigarette dal tabaccaio di via Licante. Furono catturati dai Tedeschi nei pressi del Mulino, dove attualmente si trova il Liceo Scientifico. Aldo cercò di scappare verso le campagne, dove adesso si apre la via Giuseppe Di Vittorio. Ma fu raggiunto e portato in piazza Annunziata insieme al cognato, dove furono fucilati.
L’indomani mattina il padre del Sarnelli venne a Giugliano, perché il figlio mancava da casa dal pomeriggio del giorno precedente; seppe della fucilazione e andò a cercare il figlio ed il genero tra i cadaveri scaricati davanti al cancello del Cimitero. Riconobbe subito il figlio dalla maglietta che indossava, perché i volti degli sventurati erano sfigurati dal sangue e dalla pioggia che aveva fatto gonfiare i cadaveri. I familiari provvidero alla sepoltura, approntando le bare con le tavole dei letti.


Salvatore Sestile

Salvatore Sestile aveva 47 anni ed era agricoltore. Nato il 1° maggio del 1986,era coniugato con Teresa Pezone ed aveva otto figli; la moglie era incinta del nono figlio, e l’avrebbe partorito sette mesi dopo, chiamandolo Salvatore, in memoria del marito fucilato. Abbiamo parlato con il figlio Gennaro, che allora aveva cinque anni; i fatti gli sono stati riferiti dalla madre e dai fratelli maggiori.
Salvatore Sestile abitava al Vico D’Ausilio. Fino a qualche giorno prima era vissuto con la sua numerosa famiglia alla Masseria denominata Carafelluccio, facendo il guardiano campestre ed interessandosi anche al commercio della frutta, riuscendo a mandare avanti la famiglia e dando qualcosa alla povera gente che più ne aveva bisogno.
Sapendo che i Tedeschi stavano razziando un po’ dappertutto, decise di trasferirsi in paese con pochi arredi e masserizie indispensabili. Terminato il trasloco, poiché non c’era pane, disse alla moglie di farne un buon quantitativo per la casa e per le famiglie che abitavano nello stesso cortile. Dopo aver mangiato per pranzo un piatto di riso bollito, si era riposato qualche ora; mentre la moglie e le altre donne del luogo si apprestavano a cuocere il pane nel forno, lui se ne era uscito per andare alla vicina cantina d”o Masto d”a Grotta, nel palazzo di fronte al vicolo, senza essere visto dalla moglie.
Bevuto un bicchiere di vino, decise di tornarsene a casa verso le quattordici pomeridiane. Il proprietario della cantina, di nome Vincenzo, gli disse: «Salvato’, non uscire, ché i Tedeschi stanno prendendo tutti per fucilarli». Ma Salvatore Sestile gli rispose: «Vicie’, a me non mi fanno niente, perché sono famiglia numerosa, e poi sono invalido». Così dicendo, si avviò perso la strada. Ma proprio davanti al palazzo fu preso dai Tedeschi, insieme a Luigi Bastiani, che si trovava a passare per quel tratto di strada, e portato in piazza davanti al sagrato della chiesa, dove fu subito fucilato insieme agli altri.
Udendo gli spari della mitraglia, la moglie accorse in casa e, non trovando Salvatore, si precipitò all’imbocco del vicolo con le altre donne. Riconobbe il marito, accasciato al suolo insieme agli altri, dal cappello e dalle scarpe nuove che quel giorno aveva messo per la prima volta. Dopo un paio di giorni fu consegnata alla moglie la Carta d’identità con dentro una lira; dal portafogli era sparita una somma considerevole di denaro.


Gennaro Vassallo

Gennaro Vassallo aveva 27 anni, ed era bracciante agricolo. Era nato a Giugliano il 7 novembre 1916 da Biagio e da Francesca Palma. Il 12 Febbraio 1941 si era unito in matrimonio con Teresa De Cristofaro, ed abitava al vico Pinto 21. Era stato richiamato alle armi nel 1943, avendo già una bambina; la moglie era incinta, ed abortì alla partenza del marito. Destinato a Caserta, gli erano stati concessi alcuni giorni di licenza per poter sbrigare le pratiche dell’esonero, per potersi dedicare al suo mestiere di agricoltore. La moglie era presente alla sua cattura, e ci ha raccontato quegli attimi tremendi di terrore.
Tre Tedeschi erano entrati nel vico Pinto per rastrellare gli uomini, quale rappresaglia per l’uccisione del soldato altoatesino. Era il 30 settembre 1943, di giovedì; mancavano pochi minuti alle quattro del pomeriggio. Velocemente si spase la notizia del rastrellamento, e gli uomini cercarono scampo sui tetti. Vassallo, Granata e Cacciapuoti tentarono di scavalcare il muretto per fuggire attraverso la campagna di Filippo Micillo, che portava verso Licante. I tre Tedeschi li raggiunsero mentre stavano per saltare sul tetto, e spararono in aria per intimare l’alt. Il Granata fu sorpreso sulla scala con un fucile addosso, e Cacciapuoti fu tirato giù dal muro per i piedi; fu fatto scendere anche Vassallo.
La moglie di Gennaro Vassallo cercò di seguire il marito; ma questi le raccomandò di badare alla bambina, perché lui sarebbe fuggito dal camion che avrebbe dovuto portarlo in Germania. Disse alla moglie di cercargli i documenti e di andare da Luigi ‘o stagnaro al vico Amantea, perché quello parlava il tedesco. Mentre la donna tornava a casa per cercare i documenti, la madre di questa seguiva il genero e gli altri sventurati, testimone di quell’atroce destino.
Al vico Pinto erano stati inoltre catturati sui tetti anche il trentanovenne Giuliano Ferraro ed un siciliano sfollato da Napoli; ma quest’ultimo riuscì a staccarsi dal gruppo scappando verso il vico Cante, e, mentre i Tedeschi cercavano di inseguirlo, il Ferraro riuscì a fuggire andando a nascondersi sotto la paglia della stalla. Per intimare l’alto al Siciliano, i soldati furono costretti a sparare in aria, altrimenti avrebbero colpito le donne che seguivano i congiunti catturati. Altri testimoni ci hanno riferito che il Siciliano fu poi raggiunto dai Tedeschi e ucciso per strada.
Poco più innanzi fu preso anche il diciottenne Clemente Borretti. E così i quattro malcapitati furono messi insieme agli altri, in fila, al centro della piazza Annunziata, di fronte all’attuale sede della Banca di Roma; i Tedeschi stavano davanti a loro: poi un crepitare di mitraglia.
La vedova Vassallo accorse ad abbracciare il marito riverso sul selciato con un colpo al collo, e gli prese dalla giacca il portafogli. La famiglia utilizzò le tavole del letto nuziale per costruirgli la bara. La giovane vedova si dovette adattare al lavoro della terra per portare avanti dignitosamente la figlioletta di diciotto mesi.