I catenielli esercitavano un fascino straordinario sui ragazzi, perché si potevano mostrare al collo in lunghe variopinte collane, intrecciate a più giri, o addirittura a tracollo, da una spalla al fianco, come un trionfale paludamento che significava soprattutto l’orgoglio del vincitore, la dimostrazione palese della sua superiorità nel gioco, della capacità di vincere tanto, di sbaragliare gli avversari spogliandoli di tutti i loro trofei.
Spogliare era il termine che esprimeva esaltazione ed umiliazione, ed era l’espressione ricorrente alla fine del gioco, quando però ci si giocava qualcosa, fossero i catenielli, oppure i tappi, le biglie o i giocatori. Non a caso, la minaccia dello sbruffone, all’inizio del gioco, poteva essere proprio questa: «V’aggio spuglià a tutti quanti». Ed un giocatore si considerava spogliato quando non gli era rimasto niente più da giocarsi ed era costretto a ritirarsi e a subire l’umiliazione di rimanere a guardare gli altri che continuavano a giocare, tentando magari di elemosinare un prestito. A conclusione dell’ennesimo diniego, inevitabilmente si sentiva così apostrofare l’amico che si era dimostrato poco generoso, specialmente se questi aveva motivo di ostentare le sue cospicue vincite: «Ma però sì proprio ‘nfame». Si rompeva così un’amicizia per almeno ventiquattr’ore.
I catenielli erano coloratissimi ganci di plastica a forma di S, che si compravano a cinque dieci o venti lire per volta presso una putechella del quartiere, la stessa che vendeva i giocatori.
Vi si giocava a Sottammuro, al Parauasolo, al Tre carte, al Mazzetto, alla Buca e a Zicchetiello. Le regole di gioco erano le stesse che si applicavano per i tappi.