EUGENIO CU E LLENTE
di Raffaele Cossentino
Tra i bei ricordi della mia vita di studente, che, da Afragola si recava a Napoli, tanti si affollano nella mente, ma, come accade, qualcuno più ti rimane impresso e richiede di essere liberato e riportato alle immagini nitide di quel tempo. Magari è l’occasione a dartene la spinta. Ebbene ecco che l’immagine, che si prospetta davanti agli occhi e ti riporta indietro nel tempo, è quella di un mitico artista di strada, un improvvisatone, a suo modo poeta, che si divertiva a creare “stroppole”, spesso non prive di contenuto satirico. Mi riferisco ad Eugenio Pragliola (1907- 1989), noto come Eugenio cu ‘e llente, ma anche Cucciariello o Gegé’e Giugliane. Egli, infatti, viveva a Giugliano, dove si era trasferito da ragazzo, da Rio de Janeiro, dove era nato, da emigrati giuglianesi.
Lo vedevi allo stazionamento dei tram, prima, dei pullman, poi, di Porta Capuana, puntuale presentarsi sul mezzo con una curiosa bombetta, un paio di occhiali senza vetri, la fedele fisarmonica e il megafono. Con la fisarmonica accompagnava le sue improvvisazioni con una musichetta, più o meno sempre uguale, come se volesse dire che la musica è sempre la stessa, pure quando cambiano i tempi e i suonatosi. La presenza degli studenti non lo allietava granché, perché non garantivano una buona questua. E, difatti, così accoglieva gli studenti: “Quanno saglieno’ e sturiente/ io nun accocchio ‘o riesco ‘e niente!/, sord mpicc, spicc e pure mezzune ‘e sicarette!”
Per tutti Don Eugenio rappresentava un momento di distrazione, di buon riso, di dimenticanza dei problemi del momento o giornalieri. E il pubblico destinatario non era di quello senza problemi.: tutta gente che proveniva dalla provincia, studenti, massaie, lavoratori e qualche impiegato, che, comunque, sapeva essere generoso per compensare le esibizioni del nostro artista.
Rivederlo e sentirlo in un raro video messo in rete dal signor Luciano Taglialatela di Giugliano è stata per me una emozione grandissima. Ne avevo sentito parlare dallo studioso Roberto De Simone nella sua Disordinata storia della Canzone napoletana, e da Pietro Gargano, nel profilo dedicato a Eugenio nella sua Nuova Enciclopedia Illustrata della Canzone Napoletana, ma non mi era stato possibile reperire qualche testimonianza sonora. Sì, perché Eugenio Pragliola non ha lasciato alcuna incisione delle sue improvvisazioni o “stroppole” o filastrocche, che egli amava chiamare `e gliuommere”1. Quell’audio, dell’inizio del 1970, è un vero reperto storico, forse l’unico. Un noto ginecologo dell’epoca, il professore Domenico Rossi, che apprezzava le poesie/filastrocche di Eugenio Pragliola – ci racconta il Taglialatela – chiese a suo padre di organizzare un’audizione privata a casa loro, con l’artista, che accettò. Di quell’audizione, assai esilarante, come lo erano tutte le “improvvisate” di Don Eugenio, il Taglialatela ne acquisì la registrazione, conservata gelosamente e solo ora messa in rete, per la gioia degli estimatori di questo grande artista di strada.
Il suo ricordo rimase impresso nella memoria del nostro poeta Gennaro Piccirillo, che non esitò a lasciarci un gustoso ritratto in una sua poesia, ‘O tram provinciale, che a breve sarà riproposta in una nuova silloge:
Primma d’arrivà a Napule
manco te n’accurgive,
`na macchietta simpatica,
quase sempe saglieva.
Cu ‘e stroppole sfeziose che diceva,
quanta resate ce faceva fa’:
“Sciò sciò, ciucciuvè,
vedite e nun ve fa’ maie cchiù vedè”
“Osse e pilosse,
chi vo’ male a sta gente,
s’hadda rompere l’osse”;
‘e ssignurine,
ca perdene ‘e ricchine,
l’hanna cercà dint”è scorze ‘e lupine,
ncoppo Capudichine”;
“quanno ‘a famma me strazia
giuro p “o zi’ Orazio
si ‘e vveco sulo ‘e solde,
pare ca già me sazio”;
“io ve porto ‘e salute ‘e Franco Ricce,
ma chi nun tene ‘e spicce,
hadda fa ‘a fine ‘e don Ciccio Pasticce”.
Ma le “stroppole” cambiavano di volta in volta, sia che Don Eugenio salisse sul tram, che da Napoli portava ad Afragola-Cardito-Caivano, o proveniva e procedeva in altre direzioni. E, difatti, Roberto De Simone, nella sua ultima opera, La canzone napolitana, ci racconta di Don Eugenio, che intrattiene i viaggiatori sul tram diretto a Capodimonte. “Eugenio – scrive il De Simone2 – era il più noto improvvisatore di componimenti monorimici da recitare sulle vetture in sosta, dirette al circondario di Napoli.
Eugenio, racconta il maestro, già sul tram, si annunciò con una poderosa strappata di fisarmonica e con una strofetta, che costituiva il suo identikit compositivo:
Quant’è bello ‘o signore cu ‘e llente,
invece ‘e `na lira me ne dà una e trenta.”.
E ancora:
Quant’è bello ‘o signore ‘e rimpetto,
invece ‘e ‘na lira me dà ‘a sigaretta.
E, presa la sigaretta, Eugenio attaccò, accompagnandosi con la fisarmonica, con una sua lunga improvvisata di sapore storico: la vicenda di Mussolini dalla sua conquista del potere, nel ’22, al suo arresto e alla conquista dell’Italia da parte degli Alleati:
All’ultimo venettero ‘e alleate,
‘e nire ‘e janche erano ammiscate.
Portavano caramelle e biscuttine,
ognuno jev’a caccia’ ‘a signorina,
‘a sera ‘mmiezzo ‘a via che ‘nzalata!,
avimmo fatto cornuto e mazziate,
sta guerra mo’ è fatta nu casino,
‘a colpa è stata tutta ‘e Musullino,
e mettite ‘e sorde dint ‘o piattino “.
A suo modo il Pragliola era un attento lettore della realtà storica contemporanea e la raccontava, in una sintesi, che ha dello straordinario. Lo fa qui sulla vicenda mussoliniana e sulla tragiche conseguenze, per noi, del secondo conflitto mondiale, ma lo fa anche nella lettura della crisi della canzone napoletana e della conquista dell’editoria settentrionale a spese di quella meridionale. Ed è ancora il De Simone a raccontarci come Eugenio celebri la perdita di Napoli della sua identità canora:
Mò, primma ‘e ve lassa’ e turnà a Giugliano
aggi ‘a dì na parola a nu paisano
ca pensa ancora all’epoca luntana
a ‘e tiempe d’ó ccantà napulitano
e nun sape , stu chiòchiaro, pacchiano,
che autore d’è ccanzone oggi è tuscano
e ‘a piazza d’o ccanta’ pe’ vvie stramane,
‘a Napule è fuiuta e sta a Milano.
L’ommo muderno, ‘o bitt, oggi e dimane,
canta sulo ‘a canzona americana
e quacche vvota , pure all’italiana,
ma mafie, p’ammore ‘e Ddio, napulitana.
(…)
Ll’epoca d’è ccanzone se n’è gghiuta,
‘e tiempe d’oggi ce può ffa’ nu vuto
a San Vicienzo si te dà n’aiuto.
LL’epoca d’è cantante ca te dette
Papaccio, Pasquariello e Mignonette,
Parisi, Donnarumma e ‘a canzonetta
c’arrevutava ‘o vicino e ‘a chiazzetta
fino a Parigge e a Caltanissetta3 .
A quelle voci capaci di creare un’aria di Paradiso, non si può non aggiungere quella di Sergio Bruni, capace `e te fa cunzulà ‘a ggente a uno a uno”. Altro che i vari Celentano, Modugno e Peppino Di Capri! Peppino Di Capri? “Te fa chella ‘mpressione, chill’effetto / Gomme si stinse scannanno nu. crapetto / e se ne scenne ‘o core int’ ‘e cazette “4.
Eugenio conosceva Roberto De Simone. Egli, nel 1974, aveva rilanciato Tammurriata nera, con la Nuova Compagnia di Canto Popolare, aggiungendo, in coda al testo di Edoardo Nicolardi delle strofe, che l’artista di strada aveva fatto diventare assai famose, nell’immediato dopoguerra. Quelle strofe ben ritraevano il clima di disfacimento materiale, sociale e morale della gente di Napoli, in seguito allo stanziamento delle truppe americane sul nostro territorio: la fame, la prostituzione, il mercato nero e così via. Due canzoni in particolare sono figlie di quel clima, Dove sta Zazà? e Tammurriata nera, entrambe del 1944. L’una fu composta dal duo Cutolo e Cioffi; l’altra da due grandi della nostra canzone. Edoardo Nicolardi e Giovanni Ermete Gaeta, in arte E. A. Mario.
Della prima canzone ci racconta la storia, nel libro omonimo, il giornalista Mimmo Liguoro5, un grande appassionato della canzone napoletana. L’apparente festosità delle note del brano non nasconde il drammatico fenomeno del “segno rine”.
6Difatti, mentre “la banda di Pignataro” “suonava il Parsifallo’/ e il maestro sul piedistallo, / ci faceva delizià…/ ( … ) / ‘mmiez’ a tutta chella gente, / se fumarono a Zazà!…”, la fidanzata di Isaia.
Una storia di “segnorina” è all’origine pure di Tammurriata nera.
Al Loreto Mare, dove Nicolardi era Direttore amministrativo, una giovane aveva dato alla luce, un bimbo di colore. Vi lascio immaginare la sorpresa dei genitori della ragazza e del marito. I genitori pensano alla vergogna che la figlia ha messo loro in faccia. “Beati loro – osserva il marito: essi, perlomeno, in faccia si ritrovano solo la vergogna, mentre lui, oltre alla vergogna, si ritrova pure con un bel paio dei corna7. Quel trambusto scosse non poco Don Edoardo, che,
fatto ritorno a casa, racconta tutto alla moglie e non indugia a raccontare l’accaduto al consuocero, E. A. Mario. Bastò poco perché i due artisti mettessero sulla carta e sul pentagramma, una canzone, che ancora oggi rappresenta un successo straordinario.
Non è mancata ai due autori l’accusa di un atteggiamento razzista, un’accusa che, a nostro avviso, non ha fondamento. Come non regge quella di voler dileggiare quella nascita di un bimbo di colore e, magari, riderci ipocritamente. Bisogna credere a Bruna Catalano Gaeta, la figlia di E. A. Mario, quando individua “il fulcro dell’ispirazione che spinse i due autori a comporre Tammurriata nera” cioè “la commozione provata da E. A. Mario e don Edoardo per il coraggio con il quale quella giovanissima madre aveva difeso davanti a tutti la sua scabrosa maternità”.
Questa vicenda si iscrive, dunque, in una contingenza storica e sociale che non ha lasciato indifferenti chi I’ ha vista e l’ha vissuta. Eugenio cu ‘e llente la ricorda in certe sue famose strofe, che ben rilevano i fenomeni di quell’epoca, come le “segnorine”, i tormenti della fame, il contrabbando8 . Quella composizione s’intitola ‘E signurine napulitane. Di esse si ricordò Roberto De Simone, che, toltane qualcuna, perché troppo legata a Giugliano e, perciò, poco comprensibile per tutti’, costituì come una coda alla famosa Tammurriata nera:
E signurine ‘e Capodichino
fanno ammore cu ‘e marrucchine,
‘e marrucchine se vottano ‘e lanze,
e ‘e signurine cu ‘e panze annanze.
American espresso,
ramme ‘o dollaro ca vaco ‘e pressa
sinò vene ‘a pulisse,
mette ‘e mmane addò vò isse.
Aieressera a piazza Dante
‘o stommaco mio era vacante,
si nun era p”o contrabbando,
i mò già stevo ‘o cammusanto.
E levate ‘a pistuldà 10
uè e levate ‘a pistuldà,
e pisti pakin mama e levate ‘a pistuldà11.
‘E signurine napulitane
fanno ‘e figlie cu ‘e mericane,
nce verimme ogge o dimane
mmiezo Porta Capuana.
Sigarette papà
caramelle mammà.
biscuit bambino
dduie dollare ‘e signurine.
Roberto De Simone, dicevamo, nel 1974, ha rilanciato quelle strofette, che, nel dopoguerra, erano sulla bocca dei napoletani, riprese, più tardi. dal Pragliola. Le ha aggiunto in coda a Tammurriata nera, rinverdendone un successo, in verità, mai venuto meno da quando fu lanciata dall’artista Vera Nandi. E del Pragliola il De Simone scopre anche una canzone, Trapanarella12 , del 1957, che è portata al successo ancora una volta dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare.
Ne diamo solo l’inizio, che, poi, introduce tutta una disamina dei difetti che trovi, girando per l’Italia, ma anche il lamento per l’aumento dei prezzi, che non consente a chi “fatica” di poter far fronte alle necessità della vita:
Ma si vaco add” ‘o putecaro
tutte cosa va cchiù caro.
Ma vedite quanno maje
sta miseria va aumentanno.
E aumenta ogge,
aumenta dimane
e doppodimane,
sabato sì
e dummeneca no.
Chi fatica se more ‘e famme
na vota ca sì
e na vota ca no.
Ed eccone l’apertura:
Trapanarella cu ‘o trapanaturo
e trapana ‘a mamma e ‘a figlia pure.
E trapanianno, `Mmiez “asti guaje e
canto ‘a canzone d”a cuccuvaja13
Na signurina cammina p’ ‘a strata,
nu giuvinotto lle fa na guardata
e chella, che subbeto è femmena onesta,
aret ‘o puntone, s’aiza ‘a vesta.
San Gennà, pienzece tu,
ca tante d’è ccorne ‘un se campa cchiù.
Nu prevete ncopp’ a ll’altare maggiore,
me pare nu santo prerecatore,
ma quanno va dint ‘`a sacrestia,
vo’ mille lire p’ Avemmaria.
San Gennà, tu vide a chiste?
Mbrogliano pure a Gesù Cristo.
Se Don Eugenio ha conquistato la stima e l’apprezzamento del maestro De Simone, lo deve al suo talento e alla bravura di artista. I suoi componimenti, se non raggiungono i vertici della poesia, quantomeno, a loro modo, diventano registrazione di costumi e di malcostumi, che vengono recitati, forse, con un sorriso amaro. Certo è che quelle sue “stroppole” non erano banalità, se è vero, come è vero, che goderono dell’apprezzamento di Totò e del drammaturgo Raffaele Viviani, prima, di Roberto De Simone, dopo.
Viviani14 conobbe Eugenio sulla Funicolare, il 30 marzo 1935. Allora Eugenio si rivolse a lui e agli altri con una sua “improvvisata”, che piacque tanto a Don Raffaele, che non esitò a farsela ripetere ancora. La trascriviamo da Pietro Gargano: “Signori, buongiorno eccellenza, che dopo una lunga assenza all’apparire della mia presenza, con insistenza, e faccio appello alle vostre indulgenze, che mi dimostrarono tante di quelle benevolenze, in conseguenza ne sono a conoscenza ca nisciuno ‘e vuie me penta. Ma speriamo a San Crescenzo, a Sant’Enzo e a San Vincenzo. aspetto ‘o treno pe’ Firenze e aggia i’ a Piacenza, a Cosenza e a Faenza, a truvà sorema a Vicenza, mio fratello Crescenzo. po’ vaco ‘o mulino pe’ ave’ nu poco ‘e sussistenza, nu poco ‘e pasta … siete pregati ‘e fa’ nu poco ‘e silenzio, pe’ quanno me piglio chistu pinnolo pe’ l’influenza, sta parlanno l’onorevole Falle ‘e Renza”15. Don Raffaele era intenzionato a scritturarlo. perciò diede ad Eugenio il suo indirizzo. Quando, però. l’artista girovago – tanti anni dopo – si decise di andare da Viviani. seppe che il drammaturgo era morto. Nè maggiore fortuna ebbe con Totò, che pure lo stimava, tanto che gli diede una particina nel film L’oro di Napoli (1954). Del grande artista don Eugenio ricordava la
generosità, che poté personalmente sperimentare. E ancora ne avrebbe potuto fruire, se Totò non fosse morto da lì a poco16. Per questo Eugenio disse di essere sfortunato. E sfortunato veramente lo era stato, sia con Raffaele Viviani che con Totò.
Giugliano non ha dimenticato questo suo figlio. A ricordarlo c’è non solo una Associazione culturale a lui dedicata, ma anche un libro, che ne racconta la vita e la produzione in versi 17. I giovani giuglianesi, poi, provvidero a riacquistare per Don Eugenio la fedele fisarmonica, che gli zingari gli avevano rubato.
BIBLIOGRAFIA
1972 D. Rossi A. D’errico, Poeti del popolo a Napoli, Fausto Fiorentino Editore, 19722013 R. Cossentino, La canzone napoletana dalle origini ai nostri giorni – Storia e protagonisti, Napoli, Rogiosi, 2013.
1984 R. De Simone, Appunti per una disordinata storia della canzone napoletana, in S. BRUNI, Napoli la sua canzone, Napoli, Stampa et Ars, 1984.
1989 B. Catalano Gaeta, E. A. Mario leggenda e storia, Napoli, Liguori Editrice, 1989.
1989 D. Maisto, Eugenio “Cucciariello”: Vita e versi di un vagabondo, Giugliano, Tip. Ciccarelli, 1989.
1996 V. Pallotti, Storia della canzone napoletana, Roma, Newton Compton, 1996.
2006-2015. P. Gargano, Nuova Enciclopedia Illustrata della canzone napoletana, Napoli, Magmata, 2006-2015
2010 M. Liguoro, Dove sta Zazà, Napoli, PIronti, 2010.
2015 L. De Crescenzo, Ti voglio bene assai – Storia (e filosofia) della canzone napoletana, Milano. Mondadori, 2015.
2017 R. De Simone, La canzone napolitana, Torino, Einaudi, 2017. 2017 V. Del Tufo, La tammurriata dei neri a metà nei vicoli dei bambini senza padre, “Il Mattino”, Domenica,m 16 aprile 2017.
1 Ma i suoi pezzi forti erano pure le parodie di canzoni, tra le quali ricordiamo ‘apele ‘o munnezzaro (Parodia di Papele ‘o marenaro o ‘O marenaro, di Pisano‑Mario, del 1932). O brani, nei quali Eugenio introduceva varianti desunte [alla tradizione orale, come, ad esempio, e lo vedremo, nella famosa Tammurr,iata nera (Cfr.: P. Scialò, Storie di musiche, a cura di Carla Conti, Napoli, Guila, 2010, p. 385).
2 La canzone napolitana. Torino, Einaudi, 2017, pp. 42-46.
3 Ivi, pp. 407-409.
4 Già negli Appunti per una disordinata storia della canzone napoletana, il De Simone aveva inserito questa “stroppola% che risale ai primi anni ’70. Per il musicologo quella “stroppola”, non solo accenna, non senza una punta di ironia, ai nuovi prodotti musicali di consuma, ma pare riecheggiare la voce di Giambattista Basile, che nel suo Canto de li canti, rimpiangeva le “villanelle” del suo tempo, ormai soppiantate da canzoni in toscanese ( In Sergio Bruni – Napoli la sua canzone, p. 37)
5 Dove sta Zazà, Napoli, PIronti, 2009.
6 Passarono pochi mesi dal lancio della canzone, che la parola Zazà divenne sinonimo di ragazze, che si accompagnavano ai soldati americani, chiamate, appunto, “segnorina”. In proposito Vittorio Paliotti racconta: “A via Montecalvario, nel 1945, un reduce dalla prigionia in Germania diede credito a certi pettegolezzi sul conto della propria fidanzata; si recò nel negozio dove lei lavorava e le sparò un colpo di pistola gridando, in segno di disprezzo: ‘Sei una Zazà!’. La ragazza, operata all’ospedale Pellegrini, non appena ebbe riacquistato i sensi: ‘Non sono una Zazà. Diteglielo al mio fidanzate, che non sono una Zazà` (Storia della canzone napoletana, Roma, Newton Compton, 1996, p. 286). Sia gli anziani che i ragazzi, con una particolare cadenza della voce e con un certo fare malizioso, pronunciavano in modo staccato quei due bisillabi, Za-zà. In particolare i ragazzini ritmavano Za-zà, Za-zà, quando vedevano passare abbracciati un soldato americano e una “segnorina”, volendo alludere come sarebbe finita quella passeggiata con il marine, cioè “in un abbraccio, sotto il soffitto scuro di un basso o tra le pareti a fiori di una casa borghese” (Cfr.: M. Liguoro, cit., p. 64).
7 Cfr.: L. De Crescano, Ti voglio bene assai – Storia (e filosofia) della canzone napoletana, Milano. Mondadori, 2015, pp. 120-122. Cfr. pure: V. Del Tufo, La tammurriata dei neri a metà nei vicoli dei bambini senza padre…, in “Il Mattino% Domenica 16 aprile 2017. Il bimbo della canzone è uno dei tanti figli della guerra, uno dei tanti neri a metà, trai quali non manca qualcuno diventato famoso nella musica, come James Senese e Mario Musella, il “vocione” degli Showmen, che ci ha lasciato grandi successi, come Un’ora sola ti vorrei, due “remakes”, la gilliana Come pioveva e la digiacomiana Catarì (Marzo), in una versione napoletano-inglese, e Tu sei bella come sei, cantata a Sanremo. ‘
8 Ma, insieme a questi fenomeni, sia pure con un rilievo minore, si registra anche quello delle “spose di guerra”, che caratterizza un po’ l’intera Europa sotto l’occupazione. E, con esso, va ricordato quello degli “amori” tra soldati angloamericani e ragazze napoletane. Essi ispirarono anche canzoni diventate allora assai famose, come Io t’ho incontrata a Napoli, che vede protagonista una Angelina dagli occhioni blu, napoletana, e il suo amore per un forestiero, che le promette di ritornare per sposarla: “Ci sposeremo a Napoli, / quando il cielo pace avrà” (Cfr.: R. Cosentino, La canzone napoletana dalle origini ai nostri giorni, Napoli, Rogiosi, 2013, p. 364).
9 Cfr.: “Ad Vocem” Eugenio cu ‘e llente, in: P. Gargano, Nuova Enciclopedia Illustrata della Canzone napoletana, Napoli, Magmata.
10 Questo ritornello ricorda quello, già menzionato, della canzone PIstol Packin’ Marra: “Lay that pistol down, babe, / ( … ), che significa “Metti giù la pistola”. Gli americani la cantavano in continuazione e i napoletani, in particolare scugnizzi e faccendieri, ma anche gente di passaggio, non tardarono a farlo loro in una variante fatta di fonemi napoletani e americani, subito diventati famosi, anche nella variante dei primi due versi: M ullera e pissuntella / e ullera e pissuntà” (Cfr.: M. Liguoro, cit. pp. 70-71).
11 Ricorda il ritornello di una famosa canzone americana, che allora imperversava trai soldati americani. Napoletanizzata, diventa famosa anche tra noi. Il brano americano s’intitolava Pistol Packin’ Marra, di Al Dexter. Esso divenne un grande sucesso di Bing Crosby e le Andrews Sisters.
12 Trapanarella è la donna che lavora con il naspo o aspo, cioè lo strumento che serve ad avvolgere i fili per le matasse.
13 Cuccuvaja: Civetta.
14 Va ricordato che Raffaele Viviani era un acuto ossenatore della esperienza dei girovaghi e dei posteggiatori e non snobò la bravura di Don Eugenio, che in quella categoria rientrava. Anzi la figura girovaga di Don Nicola. del lavoro teatrale Osteria di campagna, ci fa avvertire la presenza dei versi e del modo di vestire di questo bravo artista di strada di Giugliano (Cfr.: P. Scialo’, Storie di musiche, cit., p. 334).
15 Esiste pure una variante di questa apertura verbale della “stroppola”, che, di seguito, veniva recitata. Alla conclusione della esibizione. ecco che Don Eugenio, si fa per dire, presentava il conto, con una esilarante, ma anche provocatoria, richiesta di ricompensa: “Signure e signurine. ledi e milord. aggiate pacienza / cacciate nu sòrdo, / pe’ chi nun tene / na lira ‘e spicce ce hanna ascì ‘e bolle / ncopp’ ‘o sasiccio!” (Cfr.: Ivi, p. 333).
16 Cfr.: “Ad Vocem” Eugenio cu ‘e llente, in Op. cit.
17 D. Maisto, Eugenio “Cucciariello”.- vita e versi di un vagabondo, Giugliano, Tip. Ciccarelli, 1989.