Coppola Emanuele: LE FESTIVITÀ PASQUALI
A GIUGLIANO NEGLI ANNI ’50
PASQUA, UN BREVE PERIODO FESTiVO
Le festività pasquali trascorrevano in una atmosfera molto più superficiale, volendole raffrontare al periodo natalizio. Non c’era il coinvolgimento corale dell’attesa; era una veloce parentesi di serena esaltazione, con brevi forti connotazioni religiose, ma quasi senza strascico festaiolo. Questo perché l’evento si articolava ed esauriva in pochissimi giorni di vacanza, senza avere un particolare apparato tradizionale.
La Domenica delle Palme, per quanto avesse un significato di pregnante religiosità, si riduceva coreograficamente al momento della distribuzione dei ramoscelli di olivo, che ognuno portava a casa, tornando dalla celebrazione della Messa domenicale.
Il periodo della Quaresima era caratterizzato soltanto dal cerimoniale penitenziale che si svolgeva nelle chiese; ma poche donne si ritrovavano puntuali alla funzione settimanale della Via Crucis.
Le festività pasquali duravano, dunque, soltanto quattro o cinque giorni, ma con una diversa tenue partecipazione emotiva. Nel paese non c’erano segni evidenti che potessero preannunziare l’avvento di una festività importante. Anche in privato, in un contesto più familiare, non si avvertiva quella calda coinvolgente atmosfera sperimentata durante il lungo periodo delle festività natalizie. Pasqua bussava alle porte da un giorno all’altro; in meno di una settimana insorgeva e si esauriva il grande evento della Resurrezione. Va, tuttavia, evidenziato che in quegli anni Cinquanta c’era una maggiore più convinta partecipazione popolare alle celebrazioni liturgiche.
LO STRUSCIO DEL GIOVEDÍ SANTO
La serata del Giovedì Santo presentava un evidente accentuato risvolto paganeggiante. La cosiddetta Visita ai Sepolcri, che doveva avere una connotazione di compunta spiritualità, si risolveva in una rappresentazione collettiva della vanità, diventava sostanzialmente Struscio.
Dopo la celebrazione della Messa In coena Domini, con il cerimoniale della lavanda dei piedi, si attaccavano le campane, si coprivano tutte le immagini sacre, si spogliavano gli altari e si esponeva il SS. Sacramento in un sontuoso apparato floreale, davanti al quale si soffermavano i fedeli oranti fino a tarda sera. Questi rendevano in tal modo omaggio a Gesù Sacramentato, cioè nella rappresentazione del massimo trionfo teologico. Vi era, quindi, l’usanza, inveterata nei secoli, di portarsi a rendere questo omaggio nelle altre chiese del paese, assecondando la credenza di dover visitare sette Sepolcri per guadagnare delle speciali indulgenze spirituali.
Fare i Sepolcri significava, pertanto, andare a visitare Gesù Sacramentato in quasi tutte le chiese del paese. L’esposizione del Santissimo si confondeva, dunque, nell’accezione popolare, con il Sepolcro, in quanto si voleva intendere che, dopo la celebrazione dell’Ultima Cena, Gesù si avviava verso il sepolcro, anticipando così, nell’immaginario collettivo, la celebrazione penitenziale del Venerdì Santo.
Questo pellegrinare da una chiesa all’altra si diceva, dunque, andare a fare i Sepolcri. In realtà era molto più evidente l’usanza di andare a fare lo struscio, che coinvolgeva soprattutto i giovani, maschi e femmine.
Il termine struscio ha una accezione storica e sta ad indicare il lieve frusciare degli abiti lunghi durante il passeggio. Quindi, lo struscio era l’usanza antesignana delle passerelle di moda. Infatti, nell’occasione del Giovedì Santo, i giovani – e specialmente le donne – ‘nzignavano i vestiti nuovi e si mostravano in pubblico nel contesto di una affollatissima passeggiata collettiva. É evidente, in questo senso, che le ragazze uscivano per far bella mostra di sé, ed anche per trovar marito, autorizzate ad andare avanti e indietro per delle ore, specialmente per il Corso Campano, da San Nicola all’Annunziata, trovando su quell’unico percorso le altre chiese del Purgatorio, di Santa Sofia e di San Giovanni Evangelista, senza disdegnare i vicoli più appartati per raggiungere le chiese di San Marco e di Sant’Anna. Questo era, infatti, l’itinerario completo delle sette chiese, volendo guadagnare pure le indulgenze spirituali. L’altra chiesa di San Giovanni a Campo, o Madonna delle Grazie, era un po’ troppo fuori mano e le strade erano troppo poco frequentate per poter fungere da passerella.
Un’altra accezione popolare del termine struscio è riferita alla difficoltà di procedere tra la folla: essendo costretti a fare piccoli passi, per avanzare nella calca, si facevano quasi strisciare i piedi a terra.
Lo struscio si svolgeva, comunque, in una atmosfera trasognata di silenzio e di brusio; non c’erano le automobili a contendere le strade a tutta quella fiumana di gente, e di sera non circolavano neanche le carrette e gli altri pochi mezzi di trasporto. Nella penombra delle strade scarsamente illuminate si aprivano spalancati i portali delle chiese, riversando all’esterno una calda sensazione di accogliente spiritualità, col profumo dell’incenso bruciato e l’acre odore della cera che si scioglieva sotto il lucignolo tremolante delle centinaia di candele accese.
Questo era lo struscio del Giovedì Santo, l’elemento coreografico più significativo delle festività pasquali, come rappresentazione corale di un evento tradizionale vagamente raccordato all’originaria matrice religiosa.
LA VIA CRUCIS
L’altro momento di più intensa spiritualità, espressa in una concertazione pubblica corale, era rappresentato dalla processione della Via Crucis, la sera del Venerdì Santo. La celebrazione commemorativa della Passione e Morte di Gesù era organizzata dal clero e dalle associazioni cattoliche, con un apparato coreografico suggestivo, pur nella semplicità della sua rappresentazione. Non abbiamo, infatti, una tradizione drammatica in questo senso, cioè la trasposizione teatrale del racconto.
La Via Crucis si svolgeva nelle nostre strade con canti liturgici, letture di brani evangelici e proposte di meditazioni penitenziali, mentre si portava in ispalla un pesante Crocifisso di legno. Il corteo era illuminato dalle migliaia di candele schermate contro il vento, come lanterne rudimentali, da bicchieri di carta colorata.
Negli anni Cinquanta il corteo della Via Crucis era una fiumana che si ingrossava coinvolgendo quasi per intero la nostra popolazione. Oltre la pregnanza del significato spirituale che si riconosceva all’evento, per il personale coinvolgimento emotivo e per la più sincera apertura alla religiosità, nel corteo del Venerdì Santo si ravvisava anche l’occasione di ritrovarsi a passeggiare con tante altre persone che altrimenti non sarebbe stato possibile incontrare.
Lo struscio e la Via Crucis erano, di fatto, considerati momenti di socializzazione. In questo senso si può dire che le ricorrenze pasquali avevano un risvolto sociale pubblico, rispetto al carattere privato e familiare del Natale.
SCIOVETA ‘I GLORIA E MESSA PASQUALE
Pasqua non aveva una Vigilia di festeggiamenti, perché il sabato era ancora considerato una giornata penitenziale e lavorativa; in questo senso il cerimoniale della tradizione in cucina si riduceva ai laboriosi preparativi per la domenica; il frugale pasto del mezzogiorno rappresentava, però, un’eccezione e consisteva nella pizza o pastiera di tagliolini al forno. Eccezionalmente, di sera, se la celebrazione della Messa Pasquale era stata anticipata rispetto all’ora canonica della mezzanotte, si aveva la libertà di mangiare il tortano cunnito, ovvero il casatiello guarnito con uova sode non sgusciate e ricoperte da una crosta di pane croccante. Ma di solito ‘a scioveta ‘i gloria si faceva a mezzanotte, se non addirittura con la prima Messa domenicale, e fino a quel momento si osservava una rigida astinenza a tavola da qualsiasi alimento che non fosse considerato una devozione penitenziale; soprattutto non si assaggiavano le prelibatezze dolciarie preparate per la Pasqua.
La celebrazione della Messa Pasquale era tradizionalmente denominata scioveta ‘i gloria, perché al momento della solenne intonazione del Gloria in excelsis Deo (allora era ancora in uso la liturgia in latino), si scioglievano le campane, facendole suonare a distesa per tutta la durata del Gloria. Per oltre due giorni, infatti, dopo la celebrazione della Messa del Giovedì Santo, era stato inibito il suono delle campane.
Le festività pasquali si esaurivano, dunque, nella ricorrenza domenicale anticipata dal suono delle campane durante la Messa di mezzanotte. Coloro che avevano partecipato a questa solenne suggestiva celebrazione notturna, non si ritenevano esonerati dal dovere di presenziare alla celebrazione liturgica domenicale; in questa occasione nelle chiese di Giugliano si registrava una straordinaria affluenza di fedeli; le strade del paese diventavano una serena ed allegra vetrina di socializzazione; la gente si sbracciava a ricambiare gli auguri ed i ragazzi procedevano impettiti e coscienti della propria occasionale diversità, sfoggiando le scarpe ed i vestiti nuovi, o quelli che le mamme avevano tenuto accuratamente riposti negli armadi per tirarli fuori per le poche ricorrenti solennità.
LA BENEDIZIONE FAMILIARE CON L’ACQUA SANTA
Ai ragazzi era di solito affidato il compito di prende l’acqua santa per la benedizione pasquale. Dietro il portale di ogni chiesa veniva posizionata una grossa bagnarola ricolma d’acqua, che il sacerdote aveva benedetto durante il rito della Veglia Pasquale. I ragazzi ne attingevano, dopo la celebrazione della Messa domenicale, con buccaccielli, bottiglie ed altri piccoli contenitori domestici. Con quest’acqua, e con il ramoscello di ulivo prelevato in chiesa nella Domenica delle Palme, il capofamiglia officiava il rito della benedizione pasquale con la famiglia riunita in piedi attorno alla tavola prima di cominciare a mangiare. Dopo avere intonato una breve preghiera tratta dal repertorio catechistico, e recitata da tutti i commensali, l’insolito serioso celebrante aspergeva gli astanti con plateale abbondanza di goccioline d’acqua, augurando genericamente prosperità e benedizioni; quindi, seguito dalla moglie che gli sorreggeva il bicchiere con l’acqua santa, passava a benedire le altre eventuali stanze.
IL PARROCO BENEDICE LE CASE
Questa insolita benedizione familiare degli ambienti domestici era stata, però, preceduta da quella officiata dal parroco durante il periodo della Settimana Santa. Era infatti radicata in paese l’usanza di far benedire la casa in prossimità delle festività pasquali, come una lontana reminiscenza biblica del passaggio dell’angelo salvatore. Ogni parroco, accompagnato da un chierichetto in abito talare che sorreggeva il secchietto metallico con l’acqua santa e l’aspersorio, si recava a far visita a tutti i filiani della sua giurisdizione.
Di solito i parrocchiani erano stati preventivamente informati della sua venuta e, per l’occasione, le laboriose casalinghe si erano impegnate a tirare a lucido ogni stanza, accogliendo infine la visita pastorale con le porte aperte. Lo scomodo del parroco era ripagato con una modesta offerta in denaro, monete tuffate direttamente nel secchietto, oppure con due o tre uova riposte nel panaro che un chierichetto portava appeso al braccio per questa usanza; gran parte delle uova così raccolte venivano donate ai poveri della parrocchia.
IL PRANZO DI PASQUA
Il pranzo di Pasqua aveva una consistenza tradizionale codificata, con variazioni minime rapportate alla diversa estrazione sociale e alle disponibilità economiche della gente e a tavola si avvicendavano le seguenti portate attenendosi ad un rigido ordine precostituito.
Il primo piatto aveva un significato devozionale e pertanto non era particolarmente abbondante; esso era costituita da menesta e cicoria, inteso in senso lato come un misto di verdure in brodo di gallina; ma questo bollito poteva essere realizzato, di solito, anche con carni di maiale, il cosiddetto cuoccio, o con l’aggiunta di varie specie di salumi.
Poi si portava in tavola un altro primo, i maccheroni al ragù, molto più soddisfacenti e appetiti da tutti i commensali. Nello stesso piatto si riversava, come secondo, la carne utilizzata per preparare il ragù, mentre si arrostiva sulla brace della furnacella il capretto o l’agnello. Insieme a questo secondo tradizionale si serviva ‘a ‘ncappucciata, insalata verde condita con olio, sale e aceto.
Di solito, dopo aver mangiato la minestra e i maccheroni, si portava a tavola il cosiddetto piatto santo, che era una sperlonga contenente un ricco contorno di uova sode a spicchi, fette di provolone, alici sott’olio, olive bianche ed una abbondante fellata, cioè salumi affettati. I commensali si servivano da soli con più o meno controllata moderazione, facendo il conto delle presenze.
La tavulïata di Pasqua si avviava alla conclusione con i carciofi arrostiti. A quest’ultima portata calda, seguiva la frutta, ovvero finocchi, ravanelli e caruselle, una diversa qualità di finocchi a sfoglie lunghe.
I tradizionali dolci fatti in casa, ovvero la pizza roce e la pastiera di grano, chiudevano il pranzo, che era stato moderatamente accompagnato da vino bianco e rosso. Il caffè ed un poco di liquore rappresentavano il suggello di una festività già trascorsa piacevolmente a tavola, mentre ci si intratteneva a chiacchierare delle cose minime quotidiane, perché non si aveva altro da fare fino al tardo pomeriggio, in attesa di uscire per andare a far visita a familiari, cummare, cummarelle, cumpari e cumparielli.
Anche a Pasqua, dopo il pranzo, si svolgeva il cerimoniale delle letterine d’auguri nascoste sotto il piatto o la tovaglia, dove sedeva il capofamiglia, nel modo che si è già descritto per il Natale. L’intento dei ragazzi, anche in questo caso, era finalizzato alla riscossione della ’mberta.
LA PASQUETTA
Le festività pasquali si protraevano per qualche altro giorno, durante la Settimana in Albis. C’era anche allora l’usanza di fare la Pasquetta, considerata in una dimensione di divertimento popolare organizzato per gruppi familiari e per appartenenza condominiale. La Pasquetta era semplicemente la scampagnata fuori paese, detta anche ‘a pagliarella, perché gli itinerari più battuti erano quelli delle campagne, dei prati ombreggiati dagli alberi e delle estensioni sabbiose della fascia costiera, a ridosso dei cespugli che delimitavano delle naturali oasi di raccolta per i gruppi che si erano ritrovati insieme per divertirsi.
La scampagnata era, dunque, una passeggiata o gita straordinaria incentrata sul pranzo a sacco da consumare insieme, stando seduti ‘ncoppa ‘e pellicce, cioè sul fondo erboso delle campagne. Si diceva, infatti, anche “Ce ne jamme ‘ncoppa ‘e pellicce”, per significare il proposito di andare a fare una scampagnata in occasione delle festività pasquali. Le mete solitamente programmate per la Pasquetta di quegli anni Cinquanta erano poche e individuate in un raggio di pochi chilometri. In qualche caso ci si andava a piedi, con le mappate tenute per mano o caricate su di una bicicletta. Era il bagaglio necessario per andare a mangiare ‘ncoppa ‘e pellicce: pizze roce, tortani cunniti, la pastiera di grano ed il tortano a pasta ‘i tarallo, frutta e bottiglie di vino. Infatti, le festività pasquali si sarebbero esaurite consumando tutte quelle squisite tradizionali bontà caserecce.
La meta più vicina, raggiungibile a piedi, era la località denominata ‘o ponte ‘i Calvizzano, dove c’era soltanto una estensione di campi ombreggiata da una maestosa pineta, nei pressi dell’alveo di raccolta dell’acqua piovana e dell’incrocio della stradina che conduceva a Mugnano, alcune centinaia di metri prima del piccolo centro abitato di Calvizzano. Nelle vicinanze c’era pure una trattoria, ovvero una di quelle caratteristiche cantine con la pagliarella, che era un pergolato di frasche per tenere gli avventori riparati dal sole, durante la giornata, e dall’acquazza quando cominciava ad annottare. Al ritorno, dopo aver fatto rifornimento al Biscottificio Gagliardo, nei pressi della piazza di Calvizzano, ci si allungava per Mugnano e si rientrava a Giugliano per la strada di Licoda. Questo, invero, era anche il solito itinerario dei fidanzati per le loro passeggiate romantiche durante l’anno.
Una meta un po’ più distante, che si raggiungeva con le carrette o con qualche altro improvvisato mezzo di locomozione, era ‘ncoppa Ballisano, cioè la collina di Vallesana, a Marano. Anche qui l’attrattiva era costituita dagli spiazzi erbosi per fare la scampagnata, per stendere a terra le tovaglie e aggredire di buon appetito tutte le provviste caserecce, corroborati da una bella giornata di sole che contribuiva ed esaltare l’allegria e la vivacità dei gitanti, specialmente dopo aver svuotato le residue bottiglie di vino.
Ma la vera canonica scampagnata di Pasqua si faceva abbascio Patria, nella plaga delle dune sabbiose, in un paesaggio allo stato brado, tra la zona archeologica della Tomba di Scipione e la foce del lago, dove al presente c’è l’incrocio della Domitiana con la Circumvallazione.
Lago Patria per quei tempi era una meta lontana, da raggiungere esclusivamente con le carrette, e già quel lungo percorso rappresentava di per sé una allegra scampagnata. Le carrette condominiali partivano da Giugliano e attraversavano la rotonda di Qualiano; si arrivava poi ‘ncoppa San Francisco per Via Santa Maria a Cubito e si tirava diritto fino a Lago Patria, per una strada che si apriva in mezzo ai campi. Dall’incrocio di Qualiano si poteva però proseguire diritto, verso il cosiddetto ponte ‘e Surriento, e continuare per l’altra strada che conduceva verso il litorale di Varcaturo.
Il cerimoniale della scampagnata era sempre lo stesso, incentrato sulla mangiata ‘ncoppa ‘e pellicce. Lago Patria offriva, però, una variante straordinaria soprattutto per i giovani, i quali raggiungevano a piedi la spiaggia e facevano il primo bagno nel mare. Nel periodo estivo ci sarebbero ritornati spesso con le biciclette.
Sulla strada del ritorno, con gli uomini fatti un po’ a vino, le carrette si fermavano a Qualiano per partecipare ad una specie di concorso per il migliore allestimento; ma venivano premiati anche i migliori cantanti che si esibivano – come si suol dire – a fronne ‘e limone, cioè in modulazioni canore popolari col timbro della voce fatta a vino. Di solito la scampagnata a Lago Patria si faceva il Martedì in Albis. Va comunque ricordato che le carrette cominciarono poi ad essere sostituite dai camion, già negli anni Cinquanta.
Durante la Settimana in Albis c’era un’altra importante attrazione, un’altra scampagnata a pochi chilometri di distanza, e ci si andava magari anche a piedi: era la festa a Parete.
La Pasquetta considerata forse più esclusiva aveva una metà più esotica e lontana: era la Cascata di Caserta, ovvero il parco della Reggia, e ci si andava con la carretta.
IL FORNO DI PASQUA
Si diceva “Natale tutt’evere, Pasca tutt’ove” per significare che mentre la cucina delle festività natalizie era incentrata prevalentemente sulle verdure e gli ortaggi, per la Pasqua si faceva largo uso di uova, per condire e guarnire le pietanze e i dolci tradizionali. In questo senso si comprendeva la colorita espressione delle casalinghe che si parlavano tra loro, riferendosi ai preparativi culinari: “Aggio schiattato a cchiù ‘i cient’ove”.
Tra il Venerdì ed il Sabato Santo fervevano in casa i preparativi per fare ‘o furno ‘i Pasca, per approntare i ruoti che si dovevano poi cuocere nel forno condominiale o in un altro del quartiere, avendone già prenotato il servizio con l’indicazione esatta dei pezzi da portare. Insieme a qualche pezzo di pane, che per devozione si guarniva con uova sode, si preparavano, per il forno del sabato mattina, la pizza di tagliolini, la pastiera di grano, la pizza dolce alla crema, il tortano cunnito, la pizza col pomodoro ed il tortano a pasta ‘i tarallo, un panettone artigianale a pasta dura, guarnito con il naspro, i cunfettielli e i millifiori, che le nonne regalavano ad ogni nipote. Il naspro era una glassa fatta con zucchero e chiara d’uovo, finemente amalgamata, che si stendeva col cucchiaio sul tortano già cotto al forno, per farvi incollare i confetti cannellini bianchi ed i cosiddetti millifiori, coloratissime minuscole palline di zucchero.
Queste erano le quantità minime, cioè un ruoto per ogni dolce o pietanza; ma, considerato il sovraffollamento dei nuclei familiari e l’usanza di andare a fare la scampagnata della Pasquetta a base di dolci e tortano cunnito, bisognava prevedere una quantità sufficiente a soddisfare le esigenze di quattro o cinque giorni.
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Tratto da:
GIUGLIANO ANNI ’50
Un viaggio nella memoria di luoghi e tradizioni di strada
[Edito nel maggio 2000]