Recupero quadri della Chiesa Collegiata di Santa Sofia

Recupero quadri della Chiesa Collegiata di Santa Sofia




Racconta Agostino Basile nelle sue Memorie Istoriche della Terra di Giugliano, pubblicate a Napoli nell’anno 1800, che nel 1622, avendo i giuglianesi appreso la notizia che nella cittadina di Sora si custodiva il corpo del santo martire Giuliano, «considerando la perfetta somiglianza del nome, che passa tra Giugliano e Giuliano, pensarono eleggere questo per Principal Protettore e […] inviarono colà il Reverendo D. Leonardo di Costanzo e Fra Antonio Turco della Religione di Malta per ottenere una reliquia». Fu così che «a dì 11 aprile dell’anno 1622 ottennero da Monsignor Girolamo Joannellio una buona porzione del cranio e dell’osso fucile di detto Santo. Anzi generosità di quel Prelato volle accompagnare questa reliquia con quelle ancora dei SS. Deodato Abbate Cassinese, e Romito Diacono. Giunti in Giugliano, e ricevute con universale allegrezza, […] furono li Santi Deodato, e Romito dichiarati Avvocati». Le reliquie di questi nuovi santi, ed in particolare quelle di San Giuliano, vennero quindi collocate nella Collegiata di Santa Sofia, già a quell’epoca massimo edificio di culto cittadino, insieme all’Annunziata.

Narra ancora il Basile, che quando nel 1631 una spaventosa eruzione del Vesuvio risparmiò provvidenzialmente Giugliano, i suoi abitanti, attribuito questo fatto alla miracolosa protezione di San Giuliano, decisero di edificare in suo onore, sempre nella Collegiata di Santa Sofia, un’ampia cappella votiva.

L’antico storico aggiunge poi che nel 1639 un tal dottor Orazio de Blasio acquistò dagli amministratori della Collegiata il privilegio di essere sepolto ai piedi dell’altare del santo martire, impegnandosi non solo a versare alla chiesa la ragguardevole cifra di 204 ducati, ma soprattutto a far abbellire a sue spese la cappella di San Giuliano con stucchi ed altri elementi decorativi.

Fu probabilmente in occasione di questi lavori che vennero commissionate al pittore napoletano Giovan Francesco de Rosa, detto Pacecco de Rosa,  le cinque tele raffiguranti Il martirio di Santa Sofia, Il martirio di San Giuliano, Santa Giuliana in carcere, San Deodato abate e San Romito diacono, collocate in altrettanti vani posti sulla parete del piccolo abside della cappella.

Pacecco de Rosa nacque a Napoli il 26 dicembre 1607. Suo padre, Tommaso, pittore di fede tardo-manierista, non ebbe su di lui una particolare influenza, dal momento che morì nel 1610, quando il figlio aveva appena tre anni. Nel 1612 la madre del de Rosa si risposò con Filippo Vitale, uno dei pittori più importanti della Napoli di inizio Seicento, il quale prese a bottega sia il giovane Pacecco che la sorella Diana, anch’essa poi divenuta pittrice.

L’influenza del patrigno risultò particolarmente significativa nella formazione del linguaggio artistico di Pacecco, anche se molto più importante fu il suo alunnato presso il grande Massimo Stanzione, dal quale egli prese svariati modelli e da cui evinse un certo classicismo che lo portò a smorzare il naturalismo di stampo caravaggesco allora imperante.

Di grande importanza per lui fu anche la frequentazione col pittore bolognese Domenichino, attivo a Napoli dal 1631, dal quale mutuò il gusto acceso del colore.

La varietà dei maestri a cui si ispirò o con cui collaborò, portò Pacecco de Rosa a divenire presto il più convinto seguace partenopeo del filone classicistico di stampo romano; cosa che gli permise di riscuotere un grande successo tra i collezionisti del suo tempo e di vendere i suoi quadri a cifre assolutamente ragguardevoli.

Divenuto titolare di una rinomata bottega, negli ultimi anni della sua vita egli riuscì, proprio grazie ai suoi allievi, ad esportare la sua maniera pittorica anche fuori da Napoli, in maniera particolare in Puglia, dove ancora oggi si custodiscono numerose opere che recano la sua impronta. Stando poi a quanto attestano le fonti documentarie, morì a Napoli nel 1657.

I cinque dipinti di Giugliano risalgono agli anni della più stretta collaborazione col patrigno Filippo Vitale. In queste opere de Rosa adottò in maniera pienamente compiuta una tipologia composita che poi diverrà propria, fatta di figure nettamente stagliate in primo piano, rischiarate da una luce calda e diretta che le pone in rilievo rispetto ad un fondo spesso ambrato, dal quale vengono fuori poi gli altri personaggi di contorno.

È questo il caso del Santa Giuliana in carcere, dove la santa spicca su di un sfondo buio dal quale emergono minacciose le mani e gli occhi del demonio. Pacecco de Rosa, infatti, nel realizzare questo dipinto si attenne fedelmente alla tradizione agiografica, che voleva la giovane martire inutilmente tentata in carcere dal diavolo.

Echi della grande pittura di Mattia Preti e di Massimo Stanzione si ritrovano nel Martirio di San Giuliano. L’esigenza di ambientare la scena in un luogo aperto, secondo il dettato delle fonti agiografiche, unita anche alla necessità di rendere chiaramente visibili le figure del carnefice e di due testimoni, spinse il de Rosa ad utilizzare in questa tela una luce più diffusa e più calda, che fa splendere il mantello porpora che avvolge il santo. A riprova di quanto importante sia la figura di Pacecco de Rosa nella storia dell’arte del XVII secolo, è significativo evidenziare come la figura del carnefice del quadro giuglianese altro non sia che la copia di quella dell’infanticida in primo piano che compare nella Strage degli Innocenti, sempre di Pacecco, esposta al Philadelphia Museum of Art. Il volto di San Giuliano riprende invece quello dell’apostolo Giovanni in un altro suo quadro: l’Assunzione della Vergine, che si trova al North Carolina Museum of Art.

L’indiscussa abilità di Pacecco nel comporre le scene dei suoi lavori si rivela pienamente nella tela raffigurante Il martirio di Santa Sofia. Per questo episodio, infatti, egli abbandonò le atmosfere buie e chiuse che caratterizzano gli altri cinque dipinti del ciclo giuglianese, ambientando la scena in pieno giorno e quindi utilizzando soluzioni pittoriche e compositive diverse, ispirate ad un uso più disteso e corposo della luce. Il corpo di Santa Sofia appare qui interamente visibile, rischiarato a tutto tondo e con pochi tratti di chiaroscuro, funzionali tuttavia ad ispessirne i contorni.

Non v’è dubbio che il vero capolavoro di questo ciclo giuglianese sia il San Deodato abate. Raffigurato con una barba incolta che ne incornicia il volto scarno e spigoloso, San Deodato, abate del monastero di Montecassino morto il 9 ottobre 834 nel carcere di Benevento, dove era stato gettato dal duca Sicardo per ingordigia di denaro, costituisce infatti una delle figure più intense e più espressive nella produzione del pittore napoletano; una figura in cui egli riprese l’impronta naturalistica di stampo caravaggesco che ben conosceva ed aveva studiato negli anni della sua formazione.

Più luminoso rispetto a questo è l’ultimo dei cinque quadri realizzati a Giugliano da Pacecco, raffigurante San Romito diacono. La figura di questo santo, scarsamente rappresentato in pittura, si caratterizza in questa tela per il luminoso camice di seta e la preziosa dalmatica di broccato, in cui la lezione naturalistica di Filippo Vitale venne rinnovata dal de Rosa alla luce delle ricerche cromatiche di un’altra grande pittrice attiva a Napoli nei primi anni del XVII secolo: Artemisia Gentileschi.

Disposti quasi a corona intorno all’altare che ospitava i reliquiari d’argento di San Giuliano, San Deodato e San Romito, i cinque dipinti di Pacecco de Rosa rappresentavano una sorta di pantheon della Collegiata di Santa Sofia e, per estensione, dell’intera città di Giugliano. Il chiaro disegno che ne aveva ispirato la commissione, l’iconografia e la loro collocazione era ancora ben visibile ed intellegibile fino all’undici novembre del 1998, data in cui vennero trafugati da ignoti durante l’orario di chiusura della chiesa.

Malamente catalogati dalla Soprintendenza ai beni artistici e storici di Napoli durante la campagna di documentazione delle opere di Santa Sofia effettuata alla fine degli anni Settanta, di queste tele si rischiava di perdere ogni traccia se la Pro Loco Città di Giugliano, nel 2003, non avesse realizzato una mostra fotografica, intitolata Trent’anni di furti d’arte a Giugliano. In quella occasione venne infatti stampato un piccolo ma prezioso catalogo nel quale, per la prima volta, i dipinti venivano con certezza attribuiti a Pacecco de Rosa, anche grazie all’avallo di Vincenzo Pacelli, massimo storico del Seicento napoletano ed a quell’epoca docente della cattedra di Iconografia e Iconologia presso la Facoltà di Lettere dell’Università Federico II di Napoli.

Incoraggiata dal successo dalla mostra, la Pro Loco ebbe poi l’idea di inviare copia del catalogo a tutti i comandi del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale sparsi sul territorio nazionale. Un modo, questo, per dare nuovo slancio alle attività di indagine sulle opere trafugate nel corso del tempo dalle chiese di Giugliano. Esperimento quanto mai riuscito e provvidenziale, dal momento che nel luglio 2011, otto anni dopo la mostra, la Pro Loco venne contattata dal Comando di Ancona del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale dell’Arma dei Carabinieri, onde fornire informazioni circa due dei cinque dipinti rubati nel 1998, individuati con buona probabilità presso un collezionista di Recanati. Effettuato un primo riconoscimento delle tele, la Pro Loco Città di Giugliano ha avuto un ruolo determinante nel processo di sequestro delle opere da parte dell’autorità giudiziaria, inviando ai carabinieri di Ancona che seguivano le indagini i telai originali dei dipinti giuglianesi di Pacecco, e permettendo così di vanificare la linea difensiva del collezionista a cui erano stati confiscati. Questi infatti si appellava a difformità tra le misure delle opere in suo possesso e quelle registrate sulle schede di catalogazione della Soprintendenza, per contestare la corrispondenza tra le tele ritrovate in casa sua ed i quadri rubati a Santa Sofia.

Soltanto la caparbietà e l’abnegazione dei carabinieri anconetani, supportate e  suffragate dal mai domo impegno della Pro Loco nella tutela del patrimonio storico-artistico giuglianese, ha permesso, il 25 novembre 2015, di riportare a Giugliano due dei cinque quadri di Pacecco de Rosa.

Diversi segnali lasciano sperare in un prossimo ritrovamento anche delle restanti tre opere mancanti: ciò permetterebbe non soltanto di ricomporre l’unità del progetto artistico voluto dai fedeli giuglianesi nel lontano 1635, ma altresì di sanare una delle più dolorose ferite mai inferte al già troppo lacerato tessuto storico e sociale della città di Giugliano.

Tobia Iodice

 

 

Per approfondire:

COMUNICATO STAMPA

FOTO DEI QUADRI

CERIMONIA DI RICONSEGNA DELLE OPERE DA PARTE DELL’ARMA DEI CARABINIERI DI ANCONA